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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2013 alle ore 06:52.
L'ultima modifica è del 07 giugno 2013 alle ore 07:36.

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«Sei come Mubarak» è l'accusa lanciata dagli oppositori al premier turco Recep Tayyp Erdogan, per la violenza con cui le forze di polizia stanno vanamente tentando di reprimere i moti di protesta scaturiti dalla decisione (incredibile) di radere al suolo Ghezi Park (uno dei pochi polmoni verdi di Istanbul) e consentire l'edificazione dell'ennesimo centro commerciale. Ed è soprattutto il disprezzo per i manifestanti e per le loro richieste mostrato da Erdogan a far tornare in mente piazza Tahrir. Ma le analogie finiscono in gran parte qui, tra le thawràt (rivoluzioni) arabe e quanto sta avvenendo a Istanbul, Ankara, Smirne e in altre città turche. Perché la Turchia è una democrazia: magari non così compiuta da superare l'esame per una piena membership europea, ma ben lontana dai regimi autoritari cui le primavere arabe hanno messo fine. Paradossalmente, proprio Erdogan e il suo partito hanno contribuito a ridurre l'eccentricità della democrazia turca, sottoponendo il potere dei militari - per 80 anni "guardiani" della laicità delle istituzioni repubblicane create da Mustapha Kemal - alle autorità civili, come in ogni democrazia.

Ma è soprattutto la causa scatenante delle rivolte che è di natura diversa. Nel caso delle piazze arabe la miccia della protesta è stata accesa dalle insopportabili condizioni socioeconomiche di cui i regimi corrotti erano ritenuti giustamente responsabili. Nelle piazze turche assistiamo alla reazione di fronte alla strisciante deriva autoritaria e moralistica di una "democrazia imperfetta" - perché, come ha ricordato il ministro degli Esteri, Emma Bonino, la democrazia non può «esaurirsi in libere elezioni solamente» e il diritto a manifestare pacificamente ne rappresenta «un pilastro irrinunciabile» - che aveva fin qui garantito una robusta crescita economica (la Turchia è oggi la 17esima economia mondiale) e una migliore e più equa distribuzione delle risorse. Così, mentre si accingeva a quello che nella sua testa avrebbe dovuto essere un tour semi-trionfale nel Maghreb, in cui illustrare il modello turco di compatibilità tra islamismo e democrazia, il "sultano di Ankara" ha fornito nuovi argomenti a coloro che hanno sempre diffidato della sua sincera e irreversibile adesione al metodo e alla pratica della democrazia, preoccupati dell'azione governativa volta a re-islamizzare la società.

Ciò che collega le primavere arabe alle proteste in Turchia è piuttosto il dato dell'allargamento dell'instabilità regionale e la sua capacità di coinvolgere regimi ritenuti solidi. Di questo Erdogan è parzialmente responsabile. Per proporre la "sua" Turchia come un modello per il mondo arabo e per garantire ad Ankara una nuova egemonia (fondata su un soft power islamico e sul primato economico), Erdogan non ha esitato a cambiare l'allineamento internazionale della Turchia rispetto a Israele e alla Siria (storici alleati), soffiando sul fuoco della rivolta siriana, fino a provocare attentati sanguinosi contro le città turche di confine. Prima in Tunisia e in Egitto, poi in Libia e in Siria si è messo in competizione con Qatar e Arabia Saudita, cercando di proporsi come miglior mentore e interprete della voglia di riscatto dei popoli arabi. Ma forse ha commesso un errore che potrebbe rivelarsi fatale. Ha lasciato che la sua "anima pia" prevalesse sul suo spirito di "modernizzatore economico", finendo col fraintendere le ragioni del suo successo presso tanti elettori: che non condividono la sua volontà di trasformare la Turchia di Mustapha Kemal in quella di Recep Erdogan, ma ne hanno apprezzato la capacità di riformarne l'economia consentendo un aumento generalizzato della ricchezza e la nascita di una nuova borghesia anatolica. La quale potrà magari inclinare verso valori conservatori, ma non certo al costo di dover rinunciare al benessere appena conquistato e alle opportunità offerte dall'afflusso di investimenti esteri, che potrebbero fuggire altrove di fronte al protrarsi dell'instabilità.

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