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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2013 alle ore 09:50.
L'ultima modifica è del 08 giugno 2013 alle ore 12:01.

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C'è un punto debole nelle pressioni americane sulla Cina per contenere i "cyberattacchi" in arrivo da Pechino: con quale credibilità Barack Obama, in questo suo primo vertice con il leader cinese Xi Jinping, potrà chiedere trasparenza digitale/cibernetica al suo omologo quando lui stesso non è in grado di garantirla a casa? Di certo il tema della sicurezza cibernetica resta una sfida chiave del nostro tempo.

È dunque giusto che il presidente americano abbia deciso di mettere al centro di questo suo primo vertice con Xi la questione del "terrorismo", dell'hacking contro aziende, istituzioni e potenzialmente centri infrastrutturali chiave americani. Ma è giusto porre il problema solo in una direzione? Proprio ieri dalla Cina sono giunti messaggi altrettanto allarmati su attacchi di cui sarebbero oggetto aziende e istituzioni cinesi. Il China Daily rivela che la l'ente che sorveglia la sicurezza dei mainframes cinesi ha rilevato che dei 5,63 milioni di attacchi a mainframe cinesi l'anno scorso, 2,91 milioni sono arrivati dagli Usa. Un dato che Xi userà nella sua chiacchierata informale con il presidente americano. Obama da parte sua non ha che l'imbarazzo della scelta: un'inchiesta americana indica come il grande coordinatore degli attacchi il "People's Liberation Army" cinese. Da Shanghai, in febbraio e sempre con un coinvolgimenti militari sarebbero partiti attacchi contro 140 importanti aziende americane. È stato lo stesso Pentagono a denunciare tentativi di furti cinesi di tecnologia per costruire i caccia F-35 invisibili.

Si tratta ovviamente di attività illecite che gli Stati Uniti hanno cercato sempre di condannare partendo dal presupposto che una democrazia si colloca su un livello morale e di trasparenza superiore a quello di un regime totalitario. Ma oggi le carte sul tavolo si sono invertite o meglio allineate. Le rivelazioni di intrusioni della National security agency nel traffico telefonico e digitale degli americani allunga un'ombra sui credo fondamentali di libertà e tutela dei diritti civili. I casi non mancano: le intrusioni alcune settimane fa nella rete telefonica Ap ad esempio oppure, tempo addietro la penetrazione delle reti iraniane che controllavano gli sviluppi e la ricerca nucleare. Obama ieri ha cercato di rassicurare: «Non ascoltiamo le conversazioni degli americani – ha detto – cerchiamo di identificare contatti fra personaggi sospetti per giocare d'anticipo si attacchi terroristici».

Ma la linea di demarcazione è molto sottile. È vero che personaggi autorevoli come Eric Schimdt hanno identificato la Cina come il più pericoloso e sofisticato "cyberthief" che minaccia le aziende internazionali; o l'ex segretario al Tesoro Hank Paulson ha definito la questione ciberterrorismo fra Usa e Cina «esplosiva»: si temono attacchi a centrali elettriche che potrebbero paralizzare il Paese.

Alcuni calcolano i danni per gli attacchi di questi anni in centinania di miliardi di dollari. Ma perché Obama ha chiesto lo scorso inverno una proroga di 5 anni del Patriot Act una delle leggi dell'amministrazione Bush più criticate da Obama proprio per i rischi di violazione di privacy? Se Obama arriva con un po' di imbarazzo a questo vertice storico, il primo in maniche di camicia fra un leader americano e un leader cinese non è un male. Il "riallineamento" ripropone con forza la necessità di trovare delle soluzioni in grado di tutelare quanto più possibile sia la sicurezza che i diritti civili. Sarebbe bene che la soluzione la cerchino insieme, magari in un contesto multilaterale.

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