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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2013 alle ore 07:55.

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Doveva essere un'operazione di polizia giocata con forza e astuzia machiavellica, dopo avere annunciato un pretestuoso incontro del premier Recep Tayyip Erdogan con i dimostranti, e si è rivelata un'altra prova di debolezza e imperizia del capo del governo: cento feriti, di cui cinque gravi, è il bilancio ancora assai provvisorio dell'irruzione a Piazza Taksim dove la tensione resta alta e i disordini continuano.

Il governatore di Istanbul ha lanciato un blitz che sta cambiando la direzione del Paese: c'era una Turchia pre-Taksim, ora ce n'è una post Taksim. Erdogan ha proclamato tolleranza zero e non ha resistito all'istinto della repressione per affermare il suo potere: in pochi ancora pensano che possa perderlo, contando su un robusto blocco religioso e conservatore, ma la sua immagine sul piano internazionale appare compromessa e sono state seriamente intaccate le sue ambizioni di diventare nel 2014 il capo di una Repubblica presidenziale.
In una decina di giorni una modesta manifestazione ecologista, avviata da un centinaio di attivisti, è diventata uno scontro di valori e politico che sta polarizzando il Paese. E questa è già una sconfitta pesante per un leader che ha elargito alle telecamere dichiarazioni sconcertanti prendendo di mira dai manifestanti - li ha chiamati dei saccheggiatori criminali - ai social network, da lui definiti una cancrena.
A Taksim gli errori, come spesso accade in questi casi, ieri sono stati su entrambi i fronti. I manifestanti dei gruppi di sinistra hanno affrontato la polizia con lanci di pietre e molotov: si è trattato di un errore fatale perché gli agenti hanno avuto buon gioco a reagire con la massima decisione, stringendoli dentro il Gezi Park, che secondo le promesse del governatore Avni Mutlu doveva restare inviolato.

Sono così caduti in una doppia trappola perché la piazza era stata infiltrata da provocatori: un'immagine mostra uno dei lanciatori di molotov con una pistola in tasca. Cambiano le stagioni e i regimi ma i metodi della polizia resistono alle mode politiche. Le immagini diffuse in tutto il mondo hanno inquadrato alcuni dimostranti che si riparano dietro a scudi neri con la sigla del gruppo stalinista Sdp, il Partito della Democrazia socialista. Ma in realtà - afferma un militante, Ahmet Koksal, 25 anni - quando ci siamo avvicinati per dare manforte ci siamo accorti che non conoscevamo nessuna delle loro facce.
Vera o no che sia questa versione, otto lanciatori di bottiglie incendiarie sono stati fermati dagli stessi manifestanti e consegnati alla polizia per evitare ulteriori provocazioni.
Con questo duello rusticano nel cuore di Istanbul, forse destinato a protrarsi nei prossimi giorni, la Turchia rischia di imboccare la strada dell'instabilità attraversata in epoche ben più turbolente e segnate da ideologie estreme, dopo un decennio di solido dominio dell'Akp caratterizzato da un boom economico senza precedenti, ora anch'esso compromesso dalla sfiducia dei mercati.
Non è facile prevedere se l'opposizione, anche quella parlamentare del partito repubblicano Chp, sarà in grado di capitalizzare in termini politici e di voti quanto accaduto: alcuni sondaggi danno l'Akp in calo nei consensi dal 50% al 36%, un segnale che si è alienato le simpatie dei moderati. Ma siamo ancora sotto l'influsso emotivo degli eventi e non è detto che il partito di governo, sempre più smaccatamente islamico ed Erdogan-dipendente, non riesca a recuperare terreno.

Il Chp guidato dall'alevita Kemal Kiliçdaroglu - membro di una minoranza musulmana eterodossa - ha da poco tempo superato uno stallo endemico e nelle ultime tornate elettorali non ha mostrato la capacità di convincere gli elettori: si è sempre identificato non soltanto con la Turchia laica e secolarista ma anche con quella dei militari.
Questo Paese sembra segnato dagli scossoni tettonici di una faglia politica affiorata nel cielo sopra Taksim: da una parte gli islamici conservatori, dall'altra i laici, schierati su fronti sempre più contrapposti e diffidenti. Così ha voluto Erdogan che da sultano senza rivali del serraglio turco si è trovato primo ministro contestato e vituperato: ma queste sono le sorprese della democrazia, della quale probabilmente ha un'interpretazione francamente ristretta.
C'è una sorta di paradosso nella parabola discendente dell'ex promettente ala destra del Fenerhbahce: voleva esportare il suo modello di democrazia islamica nella regione, prendendo a sberle i raìs arabi, e ora sta importando i problemi, interni ed esterni, del Medio Oriente. L'incorreggibile dittatore siriano Bashar Assad, che spara proiettili ben più letali dei lacrimogeni, ha così trovato un insperato diversivo alle porte di casa che allenta la pressione sui suoi ribollenti confini.

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