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Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2013 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 13 giugno 2013 alle ore 08:28.

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Le prospettive economiche per l'Italia restano gravissime: secondo le previsioni il 2013 si chiuderà con una contrazione di circa due punti del Pil (dati Ocse). Il ministro Saccomanni afferma che la crisi è «peggiore di quella del '29» ma ripete che il governo deve rispettare il vincolo del deficit al 3% del Pil. Ne segue che per quest'anno sono possibili solo manovre a saldo zero e nel 2014 ci saranno pochi margini di intervento, limitati alla differenza tra il deficit tendenziale e il vincolo del 3%: circa mezzo punto di Pil, non più di 8 miliardi. Risorse che non sarebbero più disponibili se dovessimo dare corso al Documento di economia e finanza che pone l'obiettivo di azzerare il deficit (in termini strutturali) con nuovi progressivi innalzamenti dell'avanzo primario sino al valore record di fine legislatura del 5,7% del Pil (90 miliardi).

Nonostante l'emergenza, il governo sembra prospettarci ancora austerità. Ma questo tipo di politiche frena la crescita e non assicura il riequilibrio dei conti. Lo abbiamo sperimentato in Italia, dove gli interventi restrittivi non hanno dato gli effetti previsti né in termini di crescita (le previsioni per il 2013 erano di un + 0,5%, mentre il Pil si riduce al ritmo del 2%) né in termini di finanze pubbliche (il rapporto debito e Pil continua ad aumentare). E lo abbiamo sperimentato in Europa: l'Fmi ammette che sono stati sottostimati gli effetti deleteri delle politiche di austerità.

I modelli previsionali adottati dalle istituzioni internazionali hanno introiettato la «teoria dell'austerità espansiva», attribuendo ai moltiplicatori della politica fiscale, che misurano l'impatto delle politiche espansive sul Pil, valori negativi o prossimi allo zero. In realtà, i moltiplicatori si sono rivelati più grandi ed è innegabile che una politica restrittiva (un aumento del saldo tra prelievo fiscale e spesa pubblica) riduce il Pil in misura almeno equivalente, con retroazione negativa sulle entrate.

Per questo, occorrerebbe imprimere una svolta, smettendola di considerare i vincoli europei dei "tabù". La nuova strada consisterebbe nell'azzeramento dell'avanzo primario, pari a 2,4 punti di Pil. Significherebbe disporre di oltre 35 miliardi di euro da utilizzare per ridurre la pressione fiscale sulla produzione e promuovere politiche industriali. L'impatto sulla crescita di un intervento di questo tipo può essere analizzato alla luce delle nuove stime del moltiplicatore. Alcuni studi relativi all'Italia mostrano che in condizioni recessive il moltiplicatore della spesa pubblica supererebbe il valore di 2 (ma esistono anche stime pari a 3). Qui, più prudentemente, consideriamo il valore medio (pari a 1,3) dell'intervallo calcolato dal capo economista dell'Fmi, Olivier Blanchard. L'azzeramento dell'avanzo genererebbe una crescita del Pil di oltre 45 miliardi, 3 punti, fornendo la spinta di cui abbiamo bisogno. Entro 9-15 mesi, raggiunto il picco espansivo, anche gli effetti immediati di incremento di deficit e debito risulterebbero in buona misura compensati da due fattori: l'aumento del Pil, che abbatte i rapporti di finanza pubblica, e la crescita delle entrate, che trainate dalla ripresa incrementerebbero di almeno un punto di Pil. Andare oltre il vincolo sul deficit conviene: può permetterci di rilanciare l'economia.

Inutile sottolineare che sarebbe eccellente concordare a livello europeo simile discontinuità. Infatti un'azione espansiva portata avanti di concerto dai membri dell'eurozona, e trainata da quelli che hanno i conti più solidi, darebbe ulteriore impulso alla crescita e gioverebbe agli equilibri della bilancia commerciale; e con una Bce accomodante anche le possibili tensioni sugli oneri del debito risulterebbero arginate. Ma se l'Europa continuasse a tergiversare e a trascurare il baratro dentro cui stiamo scivolando, dovremmo considerare la possibilità di un'azione unilaterale.

Certo, si tratterebbe di una strada ardua, ma potrebbe finire con l'essere l'unica via che resta prima di arrenderci al declino o essere costretti a decisioni che metterebbero a repentaglio ancora maggiore la tenuta della zona euro.

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