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Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2013 alle ore 09:35.

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Gli effetti delle politiche di austerità sulle economie europee sono tornati al centro del dibattito. Oltre quindici anni fa scrissi con Alberto Alesina due lavori nei quali sostenemmo che le riduzioni della spesa pubblica facevano bene all'economia.
Oggi credo che la metodologia statistica che usammo allora fosse errata.
Dopo aver studiato i maggiori consolidamenti di bilancio - Danimarca, Irlanda, Svezia e Finlandia negli anni ottanta e novanta - mi sono convinto che lo stimolo alla crescita e ai consumi nel breve periodo non venne dalla riduzione di spesa pubblica (cosa che, incidentalmente, nemmeno Alberto Alesina sostiene), ma da tre fattori difficilmente riproducibili oggi.

Primo, un aumento della domanda estera favorita da svalutazioni e deprezzamenti, in alcuni casi enormi, che non sono attuabili dai paesi dell'Eurozona. Secondo, una forte riusuzione dei tassi di interesse nominali, che partivano da livelli molto alti, mentre oggi sono vicini allo zero. Terzo, politiche dei redditi, che ora non sono più attuabili per motivi politici e culturali, e che in ogni caso si dimostrarono di breve durata.
Il fatto che l'austerità non faccia bene non significa che vi siano sempre alternative migliori e praticabili. Si potrebbe per esempio chiedere al contribuente tedesco di pagare ancora di più, come nel caso degli Eurobond. Ma non succederà. L'austerità di bilancio nel caso greco era probabilmente inevitabile.

Contrariamente a quanto molti credono, lo stesso Fondo monetario internazionale nel recente rapporto sulla Grecia riconosce che «i tagli ai salari pubblici e alle pensioni, benché dolorosi... furono necessari». Certo, persone ragionevoli e competenti possono discutere all'infinito se l'austerità greca avrebbe potuto essere attuata in forme e dimensioni diverse. Per dibatterne in modo costruttivo, è necessario avere un'idea della dimensione dei moltiplicatori fiscali, cioè qual è l'effetto più plausibile su consumi, investimenti e Pil di un dato taglio alla spesa pubblica o di un dato aumento delle tasse. Da anni decine di economisti cercano di gettare luce sui moltiplicatori. I risultati, come sempre in questi casi, non sono né bianchi né neri: ci sono innumerevoli sfumature di grigio. Molti però sembrano avere certezze assolute.
Per Guido Rossi sul Sole 24 Ore del 9 giugno, ad esempio, «questa austerità, ammantata da moralismo, s'è rivelata sbagliata... con le inconfutabili critiche provenienti da premi Nobel quali Paul Krugman, Joseph Stiglitz e Amartya Sen e da economisti come Mark Blyth e Kaushik Basu»; oppure, sul Sole del 28 aprile 2013, «Da Krugman a Stiglitz è giunta la prova dei fatti che la politica del rigore e dei tagli... rende impossibile la ripresa delle economie».

Da anni Rossi lancia strali al curaro contro la «scienza triste» dell'economia e i suoi adepti, persone senza morale e senza sensibilità sociale, e illuse di possedere strumenti per analizzare problemi che necessitano di analisi molto più sottili e di una cultura più profonda. Eppure oggi apprendiamo che in economia esistono dei rapporti di causa ed effetto che sono dimostrabili «inconfutabilmente». Forse Rossi ci potrebbe indicare le analisi tecniche di Krugman, Stiglitz e Sen che a suo dire dimostrano «inconfutabilmente» la sua tesi; ma forse potrebbe anche chiedersi se è sicuro di essere aggiornato sul dibattito corrente sull'argomento. Se lo facesse, si renderebbe conto per esempio che Blyth, Basu, Stiglitz e Sen non hanno dato alcun contributo scientifico a questo dibattito, dal quale in ogni caso nulla di «inconfutabile» è emerso (e come potrebbe essere altrimenti?).

Certo, può darsi che tutti coloro che vi si sono cimentati siano in cattiva fede, immorali e incompetenti. Ma allora ci illuminino le persone in buona fede, eticamente inattaccabili e competenti. Purtroppo non ho trovato alcun accenno sull'argomento nei numerosi interventi di Rossi. Ho invece trovato citazioni di, tra molti altri, Fichte, Croce, lo Ius Cosmopoliticum di Kant, la Civitas Maxima del fisolofo del diritto Hans Kelsen, l'antropologo David Graeber, i filosofi Habermas, Böckenförde, e Gadamer, e perfino lo Zibaldone di Leopardi. Siamo tutti in ammirazione di tanta cultura. Probabilmente per i limiti mentali propri dei «Bocconi boys», alcuni di noi però faticano a vedere il nesso con la tragedia molto concreta della Grecia attuale.
Ma immagino che questo sia dovuto alla cecità provocata dai nostri limiti culturali, dalla nostra idolatria del profitto, dal nostro egoismo personale, e dalla nostra innata insensibilità per le sofferenze altrui, per non parlare degli interessi occulti che rappresentiamo.
roberto.perotti@unibocconi.it

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