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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2013 alle ore 07:05.

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«Vogliamo dei giudici con l'anima, giudici engagés, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia». Così Piero Calamandrei scriveva nelle «Opere giuridiche» al capitolo «Giustizia e politica: sentenza e sentimento», rifiutando il modello di giudice "bocca della legge", che dorme sonni tranquilli perché applica la norma come una macchina.

«Non ce ne facciamo niente di giudici êtres inanimés», esseri inanimati fatti di pura logica, perché ridurre la loro funzione a un puro sillogizzare significa impoverirla, inaridirla, disseccarla. Bisognerebbe rileggerle quelle pagine per riflettere sugli stereotipi e sui luoghi comuni che fanno breccia nel dibattito politico sulla giustizia e sul come amministrarla. Anche i magistrati dovrebbero riprenderle in mano, per riconoscersi, poiché la contemporaneità ne ha fatto degli eroi o dei persecutori, dei torquemada o dei fannulloni, dei primi attori o delle comparse. Esseri estranei, più che inanimati. L'onere di recuperare l'anima pesa sulle loro spalle oggi più che 60 anni fa, per uscire da una solitudine e un'autoreferenzialtià di cui sono vittime e artefici e per poter agire con l'impegno umano, professionale ed etico che la toga impone.

Perciò colpiscono le storie di cinque magistrati raccontate da Lionello Mancini nel bel libro in uscita oggi per Rizzoli, con il titolo «L'onere della toga» (282 pagine, 11,00 euro). Lucia, Marco, Fabio, Alessandra, Cuno sono magistrati "con l'anima", così lontani dagli stereotipi che la "cronaca vera" ci rimanda attraverso giornali, tv, talk show da farci quasi dubitare che siano personaggi reali. Le loro sono vicende umane, prima che giudiziarie, e l'empatia ne è la chiave di lettura, così come per quei magistrati è la chiave per entrare nelle "vite degli altri". Del resto, in un'indagine o in un processo, nella vita o in un buon libro, bisogna saper entrare "dentro" per poter andare avanti e comprendere. Ecco perché l'autore (giornalista e ora collaboratore del Sole 24 ore) sceglie sapientemente di raccontare così la complessità di un mondo altrimenti impenetrabile e incomprensibile, persino ostile a chi vi si imbatte, imputato, vittima o semplice cittadino.

Empatia, nausea, sofferenza, pregiudizio, dolore, pianto, ambizione, passione civile, entusiasmo, delusione sono gli ingredienti con cui Lucia, Marco, Fabio, Alessandra, Cuno impastano il loro lavoro quotidiano. Paradossalmente, gli strumenti "tecnici" ne sono solo il condimento, anche se essenziale. Chi cercasse, dietro i loro nomi, un cognome famoso, resterebbe deluso. Persino Cuno Jakob Tarfusser, il più noto alle cronache per i miracoli organizzativi fatti alla Procura di Bolzano, è quasi sconosciuto ai non addetti ai lavori. E tuttavia, in questa scelta non c'è l'adesione, neppure implicita, alla retorica dei «tanti magistrati che lavorano in silenzio, lontano dai riflettori mediatici» in contrapposizione ai «pochi magistrati ciarlieri e politicizzati» (retorica politica, funzionale a giustificare gli attacchi alle toghe impegnate in processi "eccellenti" e perciò sovraesposte mediaticamente). La scelta di Mancini è di tutt'altra natura - non per questo meno politica - perché non fa di quelle storie ordinarie il paradigma della "giustizia buona", ma semmai della "buona giustizia", seppure in un contesto di degrado ambientale, delegittimazione politica, malanimo corporativo. L'introduzione dell'autore si muove lungo questo filo e, per certi versi, anche la prefazione di Giuseppe Pignatone, Procuratore capo di Roma, seppure con l'occhio più attento alla categoria, ai suoi vizi e virtù, su cui richiama una maggiore riflessione.

Ma è dalle cinque storie che il lettore attinge elementi di conoscenza, spunti di riflessione, contributi essenziali per farsi un'opinione. Sono pagine avvincenti, ricche di suspance, briose, ironiche e commoventi. Lucia Musti riesce a piangere lacrime di dolore e disperazione solo dopo la condanna dei rapitori del piccolo Tommy di 18 mesi, ucciso prima che la giustizia arrivasse a salvarlo. Marco Ghezzi, giunto al bivio di una carriera che lo ha costretto a inseguire violenze e abusi sui "soggetti deboli", fa i conti con i suoi pregiudizi e con le evidenze della realtà. Fabio Di Vizio, un Carneade per la stampa locale di San Marino, dove quel magistrato di Forlì ha osato sfidare il collaudato sistema dello Stato-cassaforte, vìola la sua ferrea concezione di gerarchia e con un guizzo scrive al governatore della Banca d'Italia per ottenere la collaborazione che il suo apparato sembra negargli. Alessandra Dolci, alle prese con la requisitoria nel processo "Cerberus" alla 'ndrangheta milanese, fatica a trattenere la nausea per il mondo di imprenditori, professionisti, manager pubblici, politici, che ha incrociato durante le indagini. E infine Cuno Tarfusser, gli occhi chiusi e l'amarezza in bocca per l'approdo, sia pure prestigioso, al Tribunale penale internazionale dell'Aja dove si è bizzarramente conclusa la sua avventura professionale iniziata 10 anni prima a Bolzano: un «esilio» a cui lo ha portato anche il malanimo e l'incomprensione della sua «casta dorata».

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