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Questo articolo è stato pubblicato il 13 luglio 2013 alle ore 08:23.

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Se n'è veramente andato un altro pezzo del Made in Italy? Oppure la cessione della Loro Piana ai francesi di LVMH, che soltanto qualche giorno fa ha conquistato Cova a Milano, è una prova di fiducia nel nostro Paese?
A leggere i commenti sembrerebbe l'ennesima prova che l'Italia è in crisi, incapace di difendere i suoi gioielli dalle mire degli stranieri. Un paese in svendita insomma, come dimostrerebbe anche la campagna acquisti nell'agroalimentare denunciata la settimana scorsa dalla Coldiretti. Anche se nel caso Loro Piana sembra che l'affare lo abbiano fatto sia i proprietari (la cifra e i multipli sono da record) sia Bernard Arnault (il titolo LMVH lunedì ha fatto un balzo dell'1,8%).
Varrebbe invece la pena di rallegrarsi. Nel 2012 l'Italia ha ricevuto appena 8,8 miliardi di dollari d'investimenti esteri, una somma modesta rispetto ai nostri partner europei. Questo spread si deve in parte agli stessi fattori che spiegano la bassa crescita negli ultimi dieci anni. Per esempio che la giustizia civile sia tanto lenta: l'Italia è maglia nera tra i Paesi dell'Ocse per la durata del processo, anche se le risorse a disposizione sono in linea con chi fa molto meglio e il numero di avvocati per abitanti è superiore. Anche da un ritardo nel riconoscere che per accelerare la ripresa e creare occupazione è fondamentale il contributo delle multinazionali. In Italia è ancora diffusa l'idea (errata) che a spingere i capitali internazionali sia la ricerca di costi minori e che quindi sia inutile cercare di attirarli, dato che ci sono paesi a basso costo del lavoro che finiranno per strapparceli. Nella migliore delle ipotesi, che le imprese straniere vogliono portarsi a casa il Made in Italy di qualità.
Invece le multinazionali il più delle volte cercano competenze, idee, conoscenze e pertanto vogliono investire per crescere ulteriormente. Adesso la coscienza che possono giocare un ruolo cruciale in questo momento delicato, in cui tante aziende italiane soffrono per la stretta creditizia e la concorrenza di rivali dalle spalle patrimoniali più solide, sta affiorando. Il programma di governo fa riferimento alla necessità di rimuovere gli ostacoli e semplificare le procedure che scoraggiano l'arrivo di capitali esteri o l'ampliamento dei siti esistenti, chiarire le regole, puntare sulla cultura, valorizzare le eccellenze.
Certo, la lista delle cose da fare per rendere l'Italia più competitiva è lunga, nel frattempo si possono attivare interventi puntuali, senza ovviamente levare il piede dall'acceleratore delle riforme. Una strada è creare finalmente un'agenzia di promozione degli investimenti degna di questo nome, che abbia come mission creare le condizioni di contesto a sostegno delle multinazionali. Interventi diretti, in particolare studiando con i potenziali investitori pacchetti integrati di offerte rispetto alle specifiche esigenze di insediamento e consolidamento. Vuol dire anche agire proattivamente sul fronte delle politiche industriali, individuando le opportunità d'investimento offerte dal territorio così come i settori che meglio possono sostenerne lo sviluppo sostenibile.
È un investimento che vale la pena realizzare? Sicuramente sì, se si guarda ai risultati inequivoci degli studi empirici - la promozione favorisce l'ingresso di capitali internazionali. Come al solito il diavolo si nasconde nei dettagli. Per fortuna in questo caso i dettagli sono abbastanza macroscopici da non lasciare soverchio spazio agli equivoci.
La prima cosa da fare è lavorare per migliorare il clima per gli investimenti - e un'agenzia efficace si vede anche dalla sua capacità di influenzare l'elaborazione della normative e impedire che dietro il paravento della difesa di qualche interesse collettivo si celi il desiderio di rendere la vita difficile allo straniero. Per questo va data priorità alla comunicazione ad alto livello, per esempio istituendo un foro di altissimo livello dove l'esecutivo incontri regolarmente i dirigenti delle grandi multinazionali. Lo fanno per esempio Turchia e Sudafrica, anche la creazione di SelectUSA in seno del Commerce Department va in questo senso. L'importante è fare rimontare le informazioni al più alto livello, sia tra i capitani d'industria sia tra i policy-makers.
Un'altra condizione è dotare l'agenzia di mezzi all'altezza delle sue ambizioni. Le nozze non si fanno coi fichi secchi - l'Agence française pour les investissements internationaux, malgrado non sia immune dalla stretta fiscale, dispone per il 2013 di un bilancio di 20,9 milioni di euro e di 160 collaboratori. L'importante è che la destinazione di questi fondi sia funzionale a obiettivi chiari: sempre nel caso dell'AFII, un contrat d'objectifs et de performance stipulato con lo Stato per il triennio 2012-2014. Attrarre nuovi tipi d'investitori è un'ulteriore priorità e un compito che richiede strategie e competenze specifiche. Da un lato le grandi multinazionali delle economie emergenti, che per il momento non considerano veramente la Penisola; dall'altro ci sono le multinazionali tascabili dei paesi ricchi, che cercano competenze diverse in giro per il mondo, e non sempre sono a conoscenza delle eccellenze italiane.
Le multinazionali portano capitale finanziario, macchinari e impianti, tecnologia, know-how organizzativo e accesso ai mercati, ma anche - soprattutto? - un vento nuovo d'idee e attitudini che sono indispensabili per scuotersi di dosso il pessimismo e la rassegnazione con cui troppo spesso si discute del futuro. Possono acquistare imprese esistenti, mantenere le produzioni in Italia - perché è qui per l'appunto che trovano le competenze - e facilitare l'approdo in mercati lontani e altrimenti irraggiungibili. Oppure possono scegliere l'Italia, la sua posizione geografica, la sua cultura industriale, la sua mitezza come virtù sociale, per fare il salto di qualità cui aspirano. Ma perché vengano a investire, condizione indispensabile è che siano seguite in maniera proattiva, rapida, professionale da un'istituzione dotata di competenze e risorse adeguate. Anche questa è diplomazia della crescita per evitare la «patologia dell'outlet», come giustamente ha auspicato ieri il Ministro Emma Bonino.

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