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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2013 alle ore 08:19.

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Come succede spesso quando si passa dal territorio conosciuto a quello inesplorato, a Detroit dopo l'annuncio della bancarotta della città su un debito superiore ai 18 miliardi di dollari, domina la cacofonia: i democratici attaccano il governatore repubblicano Rick Snyder per aver forzato la mano; un giudice dichiara incostituzionale il default; i sindacati dei dipendenti cittadini promettono battaglia; i creditori hanno mobilitato gli avvocati e sono certi che avranno le carte per farsi valere.

Ci sono anche banche europee esposte nei confronti della città, si parla di un portafoglio complessivo di 1 miliardo di dollari sugli 11 miliardi di dollari di debito non garantito dalla città di Detroit. Per ora c'è un nome, la Hypo Real Estate Holding. Nazionalizzata nel pieno dell'ultima crisi finanziaria, Hypo aveva creato una bad bank chiamata Fms Wertmanagement che ha in portafoglio circa 200 milioni di dollari di bond Made in Detroit. Questo per dire che la maggioranza delle istituzioni che detengono il debito della città dovrebbero già averlo contabilizzato da tempo come credito inesigibile. Possibile che ci siano altri rischi? Che presto esplodano altre municipalità americane?

Tutto è possibile e sappiamo che alcune città hanno conti difficili. Le cacofonie che abbiamo ascoltato ieri, alcune in arrivo da Detroit, altre dagli esperti di catastrofismo, non hanno toccato Wall Street. Il mercato aveva già scontato la crisi e considera Detroit un caso isolato. Anzi, è un caso esemplare: dimostra come la resistenza a riforme necessarie a fronte dei tempi che cambiano possa solo peggiorare la situazione.
Ci sono due Detroit. La prima è Motor Town, una Detroit solo simbolica dell'auto americana, perché se le tre grandi ruotano attorno alla grande area metropolitana della città, gli impianti sono altrove, nei sobborghi del Michigan o in Canada. C'è poi Detroit città, logorata, impoverita, in declino fin dai primi scontri di guerriglia urbana del 23 luglio del 1967, popolazione ormai a un terzo di quello che era negli anni d'oro, ma con strutture pubbliche vetuste e incrollabili. C'è insomma la Detroit della ristrutturazione e la Detroit che l'ha rifiutata.

La dicotomia spiega perché, proprio negli anni in cui le grandi dell'auto si sono riprese, la città è fallita. Il sindacato dell'auto, la Uaw, ha capito le sfide e ha accettato cambiamenti sulle pensioni, tagli della forza lavoro, un costo del lavoro competitivo. Perché la sfida, dopo quella giapponese degli anni 80, degli Stati del sud-est del Paese che alla fine del anni 90 accoglievano fabbriche straniere, continuava con rigidità finanziarie strutturali che non avrebbero consentito di superare la crisi del 2007/2009.
Oggi, Detroit MoTown compete e va avanti. La Detroit pubblica, i sindacati dei dipendenti pubblici (1 dipendete per 55 abitanti, sembra un record per l'America!) hanno sempre respinto licenziamenti anche per attrito, tagli del costo del lavoro. Detroit città, a differenza di Pittsburgh (crisi acciaio) Cleveland (crisi petrolio), non ha saputo reinventarsi, non ha aperto a nuovi settori, non ha creato incentivi, non ha introdotto mobilità o flessibilità. E i nodi vengono al pettine. Il caso esemplare? Guai a scegliere la politica dello struzzo.

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