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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2013 alle ore 06:42.

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«Il capitalismo malato non si cura in Tribunale» era il titolo dell'analisi firmata sul nostro quotidiano dall'avvocato Guido Rossi lo scorso 21 luglio. «Nella totale e prolungata inettitudine degli altri poteri dello Stato, cioè di inconcludenti poteri esecutivi e nella avvilente condotta di quelli legislativi, i magistrati, giudici o procuratori, vanno sempre più assumendo un ruolo ingiustamente centrale, come sostituti effettivi di una politica assente».

Ma il diritto penale, ragionava Guido Rossi, finisce per mostrare solo il volto severo dello Stato, accompagnato da una totale «inefficienza nel contenere la devianza economica». In più, «la cultura della vergogna non si è radicata in Italia, a causa di costumi storicamente rilassati, mentre una inutile e continua alluvione di norme contraddittorie aggrava la situazione del Paese conducendo spesso le imprese a uno stato di paralisi e di forzata rinuncia alla loro funzione di strumento dello sviluppo economico». Per uno strano gioco di coincidenze, solo due giorni dopo, il 23 luglio, sempre sul Sole 24 Ore, il Procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, proponeva una severa riflessione originata dall'arresto di sette persone per corruzione in atti giudiziari. «I protagonisti di queste inchieste sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia italiana: l'enorme numero dei processi, la complessità delle procedure, le difficoltà degli enti nel controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». E lanciava un invito: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia».

Due angolazioni complementari, che rinviano a un'unica visuale dei problemi in cui rischia di affondare il nostro Paese. In questa visuale, le complessità procedurali e i labirinti normativi creati in decenni di fuga dalla legalità - uno dei frutti più velenosi della non-politica - sono ormai terreno di coltura di una delinquenza di altissimo livello. Sotto questo aspetto, fa bene il Rossi magistrato a cercare cause e rimedi del degrado nelle file dell'apparato giudiziario-amministrativo: un'indicazione che, se applicata a ogni latitudine professionale, contribuirebbe a ripulire la società prima dell'intervento delle toghe supplenti, ovvero prima che i comportamenti e le devianze si concretizzino in fatti-reato. I filtri reputazionali vengono a monte di quelli giudiziari e solo riattivandoli si potrà ricostruire la capacità del Paese di provare "vergogna" per le cattive pratiche ritualmente esecrate in pubblico, ma diffuse, tollerate e coltivate nell'ombra. E solo per questa via è possibile togliere alle toghe la loro anomala centralità oltre che ricollocare imprese e professioni al loro posto nel rifondare l'Italia. Alternative vere, a ben guardare, non ce ne sono. Oltretutto, per attenuare e poi azzerare gli effetti depressivi del sistema relazionale sulle energie che sprigiona il merito, non servono nuove leggi: basterebbe riattivare gli strumenti di controllo indipendente e di autogoverno già minuziosamente codificati per la finanza, l'economia, le professioni, i mestieri, gli ordini, la politica.
ext.lmancini@ilsole24ore.com

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