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Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2013 alle ore 08:16.
L'ultima modifica è del 31 luglio 2013 alle ore 08:40.

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Le organizzazioni che funzionano sono quelle in cui c'è qualcuno che decide e poi è punito o premiato. Se questo meccanismo non funziona, l'organizzazione non funziona. È vero sia per le imprese private che per le amministrazioni pubbliche. Ma in quest'ultimo caso le cose sono più complesse: non c'è un sistema di mercato che almeno in qualche misura disciplina gli amministratori inefficienti. E i decisori nell'ambito pubblico sono i politici, i cui obiettivi sono spesso di breve termine, mentre l'impatto delle decisioni è di lungo periodo. Per esempio, i politici italiani degli anni 80 sono stati bravi nel prendere decisioni che hanno massimizzato il consenso nell'immediato, scaricando, con l'enorme debito pubblico, gli oneri sulle generazioni future. Per gli enti locali il problema è ancora più complesso.

Se gli elettori degli anni 80 avessero capito le conseguenze delle scelte dei politici, forse sarebbero stati meno propensi a votarli. Nel caso delle amministrazioni locali, però, anche scelte irresponsabili possono essere sostenute dagli elettori, se il sindaco o il presidente di regione riesce a scaricarne l'onere sulla collettività nazionale.
Ci sono due modi per affrontare questo problema. Il primo è quello di lasciare che gli enti locali subiscano interamente le conseguenze delle proprie azioni. È in buona misura la scelta americana. Detroit fallisce, i creditori della città ci rimettono i soldi, i dipendenti pubblici vengono licenziati e le loro pensioni decurtate, i servizi non vengono più offerti, i cittadini che possono farlo scappano e si trasferiscono altrove.

L'altro sistema, più in linea con la nostra tradizione, è quello di aiutare anche gli enti dissestati. La ragione è che esistono servizi indispensabili a cui tutti i cittadini hanno diritto. La nettezza deve essere raccolta, le strade illuminate, la scuola aperta, il pronto soccorso deve funzionare. Tutto giusto, ma è chiaro se l'aiuto finanziario necessario perché questi servizi funzionino non è accompagnato da sanzioni efficaci, l'effetto può essere disastroso, favorendo i comportamenti più irresponsabili. È questa la ragione perché la nostra disciplina del dissesto per le municipalità accompagna gli aiuti finanziari con sanzioni nei confronti di tutti gli agenti coinvolti, dai cittadini ai creditori. Quando un comune dichiara il dissesto, la capacità decisionale passa ai commissari governativi, tasse e tariffe comunali vengono poste ai massimi livelli, i creditori non possono più rivolgersi alla magistratura, le assunzioni sono bloccate, la pianta organica del comune rivista, con la possibilità di mobilità obbligatoria per i dipendenti pubblici, i servizi non indispensabili non più elargiti.

I commissari poi procedono alla liquidazione del patrimonio disponibile e contrattano con i creditori la ristrutturazione del debito. Magari in pratica il sistema non funziona come dovrebbe, ma è chiaro che i principi di fondo sono quelli corretti. A fronte della crisi finanziaria del paese e dei vincoli sempre più stringenti di finanza pubblica, si vorrebbe anzi che questo meccanismo sanzionatorio venisse rafforzato ed esteso agli altri enti territoriali.

Sta avvenendo il contrario. Con i decreti attuativi sul federalismo fiscale era stato introdotto l'istituto del «fallimento politico» per i politici locali rei di aver violato l'equilibrio di bilancio; la Consulta l'ha dichiarato incostituzionale, come ha dichiarato incostituzionali una serie di controlli sugli enti intermedi e le società delle regioni che il governo Monti aveva cercato di introdurre. Come conseguenza, si tornerà probabilmente alla situazione paradossale in cui in presenza del commissariamento di una Regione, sarà lo stesso presidente a essere nominato commissario di se stesso.
Ma c'è di più. Nel gennaio 2013 è stata approvata la disciplina del «pre-dissesto» (riequilibrio finanziario pluriannuale), voluta da tutti i partiti, il cui scopo principale sembra essere quello di consentire a un certo numero di Comuni, in specie meridionali, di poter accedere a fondi addizionali, senza doversi sottoporre alla perdita di sovranità e alle sanzioni previste dalla disciplina del dissesto. Infine, l'accelerazione dei pagamenti dei debiti della PA decisa dal governo, cosa buona e giusta, avrà anche l'effetto di garantire il pagamento di numerosi impegni presi da amministratori locali, in spregio a vincoli contabili e obblighi legislativi. È vero che in entrambi i casi si dovrebbe trattare di prestiti dello stato all'ente locale, che dunque il Comune o la regione dovrebbero restituire, ma il rischio che questo non succeda è elevato. Si tratta di segnali preoccupanti, anche perché non s'inseriscono in un progetto organico di riforma della finanza regionale e municipale.

Paradossalmente, mentre a livello nazionale sembra che si parli solo di risanamento finanziario, a livello locale si rischia di aprire la strada al più clamoroso esempio di bailing out della nostra storia recente.

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