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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2013 alle ore 07:22.

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Non è facile oggi ed era ancora più difficile 80 anni fa riuscire a far convivere cultura e territorio, futuro ed economia della conoscenza guardando a ciò che di più innovativo si muove nel mondo.

Quando, nell'estate del '32, il conte Giovanni Volpi di Misurata al grido di «Il Lido xe stracco» (il Lido è stanco) diede vita, insieme al segretario generale Antonio Maraini, al segretario dell'Istituto per il cinema educativo, Luciano De Feo, alla prima esposizione internazionale dell'arte cinematografica sulla terrazza dell'Excelsior, non immaginava di creare un format di successo imitato poi a tutte le latitudini.
La 70a Mostra del Cinema (70 sono le edizioni per le sospensioni della guerra e per le giornate del cinema nel '68) che si apre stasera al Lido con la proiezione del film Gravity di Alfonso Cuarón celebra in parte quell'intuizione cercando di restare fedele (nei limiti del possibile) allo spirito delle origini. «Sì - ammette Paolo Baratta, presidente della Biennale, otto anni alla guida dell'Istituzione divisi in due mandati - c'è questo ma ancora di più ci sentiamo vicini alla visione di quel grande sindaco di Venezia del 1893, Riccardo Selvatico, che al posto di una semplice esposizione di artisti viventi si battè per una mostra da tenersi ogni due anni con uno sguardo sulla modernità attirando l'attenzione del mondo. L'idea di Volpi, la necessità di dare vita al Lido di Volpi è figlia dell'intuizione di Selvatico». Un po' come se oggi all'Expo di Milano che si prepara per il 2015 si lanciasse prima della chiusura l'idea di una Biennale sull'alimentazione.

C'è anche il fatto che Venezia, con il Nord-Est, si candida a capitale europea della cultura per il 2019. «È da anni - dice Baratta - che i sindaci sono impegnati come "impresari" e si affidano alla cultura per valorizzare il territorio. Il rapporto con Venezia è positivo, consolidato: traiamo benefici dalla città e le diamo molto».
In futuro, la Biennale vuole proporsi come centro di formazione artistica per non «condannare al dilettantismo i giovani talenti» ma accompagnarli in un percorso di crescita professionale e artistica. «Lo facciamo con Biennale College - aggiunge Baratta - per teatro e danza, da quest'anno anche per il cinema; registi giovanissimi provenienti da tutto il mondo partecipano a un laboratorio per un lungometraggio low cost. Sono stati presentati centinaia di progetti. Poi professionisti lavorano con i 15 autori selezionati sul progetto a Venezia, in modo che sia completato. I tre lavori scelti (un americano, un thailandese e un italiano) saranno presentati quest'anno alla Mostra».
Ma mentre per l'arte gli spazi hanno trovato tra i Giardini e l'Arsenale una dimensione quasi ottimale, per il cinema dopo lo stop ai lavori per il nuovo Palazzo tutto si è rimesso in moto dal 2010. «La strategia - sostiene Baratta - è quella di un buon passo in avanti ogni anno per la riqualificazione delle strutture storiche; la Sala grande è tornata a nuova vita; quest'anno abbiamo messo mano al Casinò con una nuova sala da 150 posti, utilizzando il finanziamento di 6 milioni ottenuti dal Comune, l'anno prossimo ristruttureremo la Sala Darsena; ciò significa in due-tre anni portare i posti dagli attuali 4.900 a 5.500 ossia più di quelli disponibili a Cannes o a Berlino».

I conti restano quelli di sempre: una macchina organizzativa che costa 12 milioni di euro coperti per 7,5 milioni dal ministero attraverso il Fus (Fondo unico per lo spettacolo), 1,2 milioni da biglietti e 2,5 da sponsor. Un ritorno economico per la città valutabile ben oltre i 36 milioni che uno studio recente assegna con moltiplicatore di tre euro per ogni euro speso in quasi tutte le città sede di festival. Ma Venezia è una storia a parte.
Anche sui contenuti della Mostra il presidente della Biennale sembra più che soddisfatto. ««Fino a qualche anno fa la Mostra era ancora frenata da residui sessantottini, si era un po' chiusa in se stessa, anche se aveva avuto grandi direttori; troppo provinciale la vexata quaestio del Leone d'oro che mancava sempre al cinema italiano; con Barbera, invece, abbiamo introdotto elementi di novità rispetto al circolo cinematografico romano che considerava la Mostra un suo appannaggio, in questa operazione Barbera è stato bravissimo».

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