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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2013 alle ore 07:51.
C'è un intreccio di risvolti nell'inchiesta sui giacimenti di petrolio e di gas naturale in Basilicata, dove i progetti di alcune multinazionali – tra cui l'italiana Eni – stanno finalmente prendendo corpo. I primi risvolti riguardano l'immancabile effetto nimby, che accompagna gran parte degli interventi di una certa consistenza nel nostro Paese, e il rischio di autogol che ci caratterizza.
L'Italia vanta il principale giacimento terrestre d'Europa, un potenziale competitivo apparentemente micidiale – per l'industria, il sistema-Paese e anche per i cittadini grazie alle royalty – ma questo potenziale rischiava di essere vanificato o almeno ridimensionato a causa dei ritardi. Investimenti per miliardi che hanno atteso per anni prima di essere sbloccati: siamo un Paese che ama scherzare col fuoco. Finché non si scotta. Com'è accaduto a Brindisi lo scorso anno, quando dopo intoppi infiniti British Gas ha salutato tutti revocando un progetto da 800 milioni. Ora, in Basilicata questo scenario è forse scongiurato, gli interventi sono avviati o stanno per esserlo, ma restano almeno due fronti ancora aperti. Il deficit energetico è uno dei principali gap competitivi denunciati dalle imprese e riconosciuti anche dalle istituzioni centrali. Ora, cosa farebbe chiunque nelle stesse condizioni? Cercherebbe di capire come risolvere o mitigare questa diseconomia, invece l'Italia, come ammette lo stesso Mise, non fa ricerca da una quindicina d'anni. Guai a scoprire che magari i giacimenti sono ancora più ricchi di quel che si pensa. Infine, e questo riguarda i soggetti imprenditoriali coinvolti, oltre alle istituzioni, forse varrebbe la pena di immaginare la creazione di un indotto importante, in una regione "povera" come la Basilicata. Perché oggi, royalty a parte, un parte importante delle ricadute finisce fuori regione.
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