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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2013 alle ore 08:01.

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Caro Direttore, i temi toccati dal suo editoriale di domenica scorsa e il dibattito che nella stessa giornata ha coordinato al Forum Ambrosetti offrono numerosi spunti sui nodi che dobbiamo sciogliere per dare vigore ai primi timidi segnali di ripresa e lanciare così il nostro Paese in una nuova stagione di crescita sostenibile.

Chiedo dunque la sua ospitalità per chiarire il mio pensiero su due temi: il controllo della spesa pubblica - che ha brillantemente affrontato nel suo editoriale - e il Documento di Genova di Confindustria e sindacati, su cui ho fatto un breve cenno a Cernobbio.
Fin dall'inizio del mio incarico di governo, ho sempre sostenuto che la ripresa economica richiedesse passi decisivi verso la riduzione della pressione fiscale sul lavoro e le attività produttive. Solo un sistema produttivo rivitalizzato - e non certo l'apparato pubblico - potrà infatti assicurare nuove opportunità ai disoccupati e ai giovani che entrano sul mercato del lavoro. E tuttavia ho anche ripetuto ad nauseam che la riduzione delle tasse sul lavoro e sulle imprese non potrà essere finanziata da un maggiore deficit del bilancio pubblico: non tanto per gli impegni, che pure sono sacrosanti, che abbiamo assunto in sede europea, ma perché il debito pubblico, già superiore a duemila miliardi, genera una spesa per interessi che nel 2013 grava su ciascun cittadino italiano (neonati e nonni inclusi) per 1.400 euro.

Il taglio alla pressione fiscale sul lavoro può quindi essere compensato solo in tre modi: spostando parte delle imposte dalla produzione alla rendita; rafforzando la lotta all'evasione e all'elusione fiscale; riducendo la spesa pubblica attraverso la spending review. Concordo con lei che il tema del controllo della spesa è spesso abusato nel discorso pubblico, al punto da avvalorare la tesi - invero non confermata dai fatti - secondo cui non si è fatto nulla e che invece molto si potrebbe fare se solo lo consentisse la "manomorta burocratica". La realtà è più complessa di così. Nella realtà, grazie all'azione costante e silenziosa dell'amministrazione, si sono prodotti risparmi sistematici che hanno invertito la dinamica della spesa: escludendo le prestazioni sociali in denaro, la spesa primaria corrente per le voci principali tra 2010 e 2012 si è contratta di 4,2 punti percentuali (14 miliardi). In particolare la spesa sanitaria nello stesso periodo è scesa quasi di 1 punto percentuale, mentre nel periodo 2000-2006 cresceva del 7% annuo.

Per contro è anche vero che non è possibile ridurre la spesa per importi significativi con un semplice tratto di penna. Occorre invece entrare ex ante nei meccanismi di formazione delle decisioni di spesa attraverso la definizione di parametri e procedure che consentano di realizzare un controllo efficace delle dinamiche della spesa ed evitare quegli sprechi che sono sotto gli occhi di tutti e sui quali prospera un certo bizantinismo della nostra architettura burocratica. In primis accelerando l'adozione di costi e fabbisogni standard. Per perseguire questo obiettivo, come ho detto a Cernobbio, il governo intende in tempi brevi nominare il commissario straordinario per la spending review, dotato di poteri già rafforzati nel decreto "Fare", con l'obiettivo di introdurre in Italia le "migliori pratiche" collaudate in materia in altri paesi industrializzati.
Per quanto riguarda il documento congiunto di Confindustria e sindacati le confermo che anch'io - come il Presidente del Consiglio dei Ministri - lo ho apprezzato fin dalla prima lettura, trovandolo in sintonia con la linea strategica su cui il Governo ha ottenuto la fiducia in Parlamento. Ciò premesso, nel corso del dibattito di domenica scorsa ho ritenuto opportuno fare notare che l'impatto complessivo delle riforme proposte è molto oneroso per le condizioni del debito pubblico richiamate sopra. Sono convinto che si debbano reperire le risorse necessarie per realizzare quel programma e ciò sarà possibile se ciascuna delle parti in causa saprà dare il proprio contributo. Condivido pertanto l'appello che nel suo editoriale rivolge alle organizzazioni dei lavoratori e delle imprese, e che io estendo al sistema bancario e finanziario.

Faccio pochi esempi certamente non esaustivi dei contributi che ciascuna parte potrebbe dare a un piano di rilancio condiviso: riduzione del costo e contemporaneamente incremento dell'efficienza dell'apparato pubblico; innovazione nei sistemi di sostegno al reddito, con politiche attive che favoriscano il reinserimento di lavoratori inoccupati; superamento dei limiti dimensionali delle nostre aziende, che renderebbe possibile un programma di investimenti per l'innovazione tecnologica e per l'internazionalizzazione; sviluppo delle competenze (e del coraggio) per selezionare le iniziative di investimento meritevoli di un adeguato accesso al credito a più lungo termine da parte del sistema bancario e finanziario. Tocca a noi, insomma, a tutti noi, insieme. Con la Legge di stabilità il Governo farà la sua parte.

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