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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2013 alle ore 07:59.

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A Gazoldo degli Ippoliti, nel 1959, i motori dei primi laminatoi sono a combustione interna. Sono stati prodotti per i camion. Steno Marcegaglia li ha acquistati e riadattati. Quando - poco tempo dopo - li sostituisce con motori elettrici, l'impatto sulla rete è così pesante da provocare il black-out di mezza provincia di Mantova.

«N e rideva ancora, a distanza di oltre quarant'anni, mentre lo raccontava agli studenti», ricorda Carlo Mapelli, docente di metallurgia al Politecnico di Milano, dove Steno ha ricevuto nel 2002 la laurea honoris causa in ingegneria dei materiali e dove ha finanziato una cattedra e diverse borse di dottorato. In quella capacità di trasformare le cose, mutandone le funzioni e piegandole al fare impresa (il motore di un Tir come fonte di energia per un laminatoio), e in quella gioia per una vita imprenditoriale trascorsa come se fosse prima di tutto una grande avventura umana, c'è lo spirito di Steno Marcegaglia, scomparso ieri all'età di 83 anni. «La sua morte fa il paio con quella di Luigi Lucchini e sancisce la fine dell'età del ferro del nostro capitalismo - riflette l'economista Enzo Pontarollo, direttore della rivista L'Industria - si tratta di figure mitiche che hanno determinato la natura del nostro Paese nel secondo dopoguerra». Una realtà in cui l'acciaio e l'alluminio, i tondini e i tubi sono ovunque: nelle strade, nelle ferrovie, nelle automobili, negli elettrodomestici. Steno conosce bene quell'Italia. Ne conosce le campagne. Ha vissuto, dall'interno, il meccanismo di progressiva emancipazione dalla povertà della provincia profonda, ma anche la sua mutazione, coincisa con la perdita di centralità della vita dei campi e con l'industrializzazione dei borghi e delle città.

Prima dell'acciaio, infatti, dall'età di 21 anni, ci sono l'impegno nell'Alleanza Contadini e l'adesione alla Coldiretti. Un'attività a metà fra il sindacalismo e la consulenza. Steno, che ha un diploma da geometra, assiste i mezzadri e gli affittuari agricoli nei loro problemi di natura fiscale e giuridica e - per quasi dieci anni - ne cura gli interessi nelle controversie con i latifondisti. Gazoldo degli Ippoliti, Redondesco, Goito. E, anche, i paesini del Basso Mantovano. Luoghi in cui la ricchezza - o meglio l'arricchimento - del Boom economico fatica ad arrivare. Qui, anche se l'Italia della ricostruzione è tutto un brulicare di produzioni e di nuovi consumi, il tempo sembra essersi fermato: non mancano i casi di pellagra e di malaria. La povertà è vera. «A venti anni, si è tutti dalla parte del più debole. Ma io sono ancora un cristiano sociale», ricorderà lo stesso Steno Marcegaglia, rivendicando la continuità spirituale e ideale della propria vita, nella testimonianza rilasciata a Elena Luberto, autrice del volume «Il Signore dell'Acciaio. L'avventura umana e imprenditoriale di Steno Marcegaglia», pubblicato nel 2009 da Marsilio. Nel 1959, a Gazoldo, Steno apre un laboratorio artigianale di 120 metri quadrati, dove produce guide per le tapparelle con l'utilizzo degli sfridi di lavorazione delle Acciaierie Falck di Milano. Poco alla volta, sfruttando il driver di una crescita che in Italia è densa di contraddizioni ma impetuosa, costruisce un modello di business particolare. «Non è un siderurgico classico - nota Gianfranco Tosini, docente di Economia dello sviluppo e dei mercati globali alla Cattolica di Brescia - certo non ha mai avuto il ciclo integrato».

Marcegaglia sfrutta bene la tecnologia della deformazione plastica per la quale utilizza di volta in volta gli acciai prodotti sia dai cicli integrali che dai forni elettrici, attraverso un'attenta analisi commerciale e un occhio alle convenienze congiunturali. Imposta un processo industriale che, fin dall'inizio, congiunge il ciclo della fornitura con il mercato finale. Acquista semilavorati, li trasforma secondo precise esigenze e poi li rivende. Compra coils e ne fa tubi. Per realizzare tutto questo - non soltanto per lui, ma anche per i suoi collaboratori - occorre sviluppare competenze multidisciplinari: bisogna sapere di tecnologia e di innovazione, ma anche di organizzazione industriale; vanno intuiti i movimenti dei mercati delle commodity e dei semilavorati, ma vanno anche anticipate le esigenze di settori come le costruzioni, il bianco e l'automotive. In questo, Steno Marcegaglia fonda una sorta di scuola manageriale informale. Con, in più, la personale capacità di negoziare, soprattutto con le banche, un'attività in cui il capitale circolante costituisce un nodo fondamentale e in cui la redditività (industriale e netta) è strutturalmente bassa. Un pezzo per volta il gruppo Marcegaglia diventa uno dei big player dell'acciaio italiano ed europeo. «La sua capacità - ricorda Giuseppe Pasini, dal 2002 al 2012 presidente di Federacciai, con Steno vicepresidente - era quella di entusiasmarsi per le cose, creando una miscela di passione personale e di ragione industriale. Per lui l'azienda e la famiglia, in fondo, erano un tutto unico.

Diceva sempre: "Io faccio consigli di amministrazione ogni giorno. Basta che mi metta a parlare con mia moglie, Mira, o con i miei figli, Antonio e Emma"». La figlia Emma, oltre all'impegno in azienda, è stata presidente di Confindustria dal 2008 al 2012 e ora è presidente di BusinessEurope. Il figlio Antonio, alla guida del gruppo, si è dedicato - oltre che al consolidamento sul mercato interno - all'internazionalizzazione sui mercati stranieri. «Per lui - nota Luberto - la famiglia è stata una dimensione umana e imprenditoriale fondamentale». Cristianamente, con Mira, nella buona e nella cattiva sorte. Come, nel 1982, con il sequestro sull'Aspromonte. Sì, perché, a Steno Marcegaglia la vita non ha risparmiato una delle pratiche criminali più arcaiche e violente della storia italiana. La figlia Emma ha 17 anni. Il figlio Antonio 19. Lui è lontano, chissà dove. Nonostante il dolore e la paura la moglie Mira, a Gazoldo degli Ippoliti, ripete a tutti: «Ora ci sono io. L'azienda va avanti ugualmente». Lui tornerà, a casa e in fabbrica, dopo cinquantun giorni di prigionia. Segnato, ma non annichilito da quella esperienza. Sempre con, dentro, una grande energia. «Aveva una carica invidiabile - ricorda Pasini - ancora poco tempo fa mi capita di incontrarlo in un aeroporto internazionale. Gli chiedo: "Steno, dove vai?". E lui, come sempre, mi stupisce: "Sto andando in Corea, a trattare per dei coils"».

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