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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2013 alle ore 06:50.

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L'imprenditorialità è un fiume con la sorgente che emette nuove imprese e il delta diviso in due rami principali. Un ramo riversa prodotti e servizi nel mare delle opportunità commerciali. Lungo l'altro ramo, defluiscono nel mar morto le aziende prese nel gorgo della crisi. Gode di buona salute il fiume imprenditoriale che scorre nel nostro Paese? Nel mare delle opportunità continuano a sfociare parecchie imprese manifatturiere: 15mila di piccole e medie dimensioni mostrano un'alta vocazione a cogliere opportunità che si presentano sui mercati internazionali. Nel mar morto della crisi, però, per asfissia da mancanza di ossigeno del credito e della domanda interna, si sono perse 70mila imprese manifatturiere tra il 2007 e il 2012.

Maggiore preoccupazione desta lo stato di salute della sorgente dove si formano le nuove imprese. L'ultimo monitoraggio eseguito dal Global Entrepreneurship Monitor (Gem) indica che su 10 attività imprenditoriali allo stato iniziale solo 2 sono trainate dalle opportunità. Un dato, questo, che se per un verso segnala un distacco consistente dal Regno Unito (4 su 10), dalla Germania (5 su 10), dalla Francia e dagli Stati Uniti (quasi 6 su 10), per l'altro evidenzia l'enorme lontananza dalle economie nordiche, in particolare dalla Danimarca, che con 7 su 10 start up mosse dalla convenienza guida la classifica. Altri segnali non incoraggianti provengono dalla qualità delle opportunità di business alla sorgente - uno dei fattori che più influenzano la pulsione a intraprendere. L'Italia appare anche in questo caso tra i Paesi in coda alla graduatoria. Con un valore pari a poco meno del 20%, la sorgente italiana perde potenza sia rispetto ai tre grandi dell'Unione e agli Stati Uniti (Regno Unito, Germania Francia e Stati Uniti hanno fatto registrare valori rispettivamente pari al 33, al 36, al 37 e al 43%), sia a confronto delle economie del Nord Europa che occupano la parte alta della classifica (col 66% il primato spetta alla Svezia).

Per iniziare la discesa dalla sorgente verso valle, il potenziale imprenditore deve superare il timore d'incorrere in un fallimento nonostante ritenga di aver individuato una buona opportunità di business. Ebbene, la potenza della sorgente italiana di creazione d'impresa è ridotta dalla sindrome del fallimento. Secondo le rilevazioni del Gem, la percentuale di popolazione che vede nel timore di un dissesto il principale motivo per non perseguire l'opportunità imprenditoriale, è in Italia pari al 58% - un valore che ci colloca appena sopra la Grecia (61%) e ci relega nella penultima posizione in una graduatoria di 69 Paesi.
È passeggera, di natura congiunturale, la malferma salute della nostra sorgente imprenditoriale? Purtroppo, è strutturale il rallentamento della sua potenza. Tra il 2001 e il 2012, dall'evoluzione del tasso d'imprenditorialità early stage emerge un affievolimento tendenziale della propensione a intraprendere, con la caduta dell'incidenza del tasso d'imprenditorialità allo stato iniziale, sceso dal 6 al 4%, e il peso delle imprese appena costituite quasi dimezzato, dal 4,4 al 2,4%. Infine, la paura di fallire manifesta un chiaro trend ascendente: la percentuale del 58% nel 2012 è solo l'ultimo e il più elevato di una serie di massimi fatti registrare dopo il 28% nel 2001.

Quando dalla sorgente italiana scorre a valle, l'imprenditorialità non è ricca di sostanze nutritive per l'occupazione. Il Gem monitora le aspettative degli imprenditori allo stadio iniziale relativamente alla creazione minima attesa di nuovi posti di lavoro nelle loro imprese, in un orizzonte temporale di cinque anni. Questo indicatore è una proxy delle prospettive di crescita aziendale e del potenziale impatto delle nuove imprese sulle dinamiche del mercato del lavoro. I dati per 22 Paesi europei e per gli Stati Uniti, con tre possibili livelli di crescita: bassa (da 0 a 5 occupati previsti), media (da 6 a 19), alta (da 20 in su), relegano l'Italia in bassa classifica, nella classe 0-5, e ne fanno il fanalino di coda tra i paesi nella classe 6-19.

È lunga la lista delle cause che hanno contribuito a depotenziare la sorgente imprenditoriale italiana e abbassarne la qualità. Ce n'è una, la paura di fallire, sempre denunciata, mai approfondita a sufficienza. Una paura che persiste a dispetto della caduta verticale del costo della creazione d'impresa, precipitato dai 2 milioni di dollari nei tardi anni Novanta del secolo scorso ai 5mila di oggi. Per quanto si mettano sul banco degli imputati banche e capitali di rischio, il primo colpevole è il deficit di cultura. Un disavanzo da colmare giorno dopo giorno, facendo scoccare la scintilla della cultura d'impresa sin dalle scuole primarie. Il fallimento in cui intercorre la maggioranza delle start up non dovrebbe essere un deterrente per intraprendere un'esperienza imprenditoriale già in tenera età. Perché con un atteggiamento passivo relegare all'eccezionalità del caso Ingvar Kamprad, il fondatore dell'Ikea, che da ragazzo partì per la sua avventura imprenditoriale, armato di bicicletta per la vendita di fiammiferi ai vicini di casa? Perché trascurare l'incredibile energia che scaturisce dalle idee degli imprenditori nascenti? Oggi, nel vuoto prodotto dalla crisi, ogni start up, che sopravviva o meno, è una particella di energia che alimenta il ciclo delle idee imprenditoriali alla sorgente.
piero.formica@gmail.com
stefano.supino@unicas.it

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