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Questo articolo è stato pubblicato il 04 ottobre 2013 alle ore 07:51.

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È certo un bel segnale che il giorno dopo la rinnovata fiducia all'esecutivo Letta, emerga all'onore delle cronache l'approvazione alla Camera del decreto «Valore Cultura» del ministro Bray, segno di un operato del governo delle larghe intese che senza troppi clamori non è mai venuto meno neppure nei momenti di massimo conflitto politico.

È la seconda buona notizia, riguardo a una nuova stagione di attenzione alla cultura come motore di sviluppo auspicata dal Manifesto per la cultura del Sole 24 Ore un anno e mezzo fa, dopo la nomina de parte del presidente Napolitano dei quattro senatori a vita. Bene la riforma in nuce delle Fondazioni liriche, che dà il via ad una vera e propria riforma dei teatri eliminando l'annoso problema che li affligge, ovvero la scarsa produttività. Ora spetterà ai commissari straordinari ridurre, ove necessario, «la dotazione organica del personale tecnico e amministrativo fino al 50% di quella in essere al 31 dicembre 2012» e attuare una serie di nuove misure per ridurre sprechi e privilegi che fino ad ora hanno fatto lievitare i costi a dismisura. Le Fondazioni liriche, commissariate o meno, potranno comunque avanzare la richiesta di un finanziamento per la ristrutturazione, l'azzeramento dei contratti integrativi, e avere la possibilità di non assegnare al sindaco della città la presidenza del teatro (il cda è l'organo di gestione unico). Il decreto mette fine ad un utilizzo del Fondo unico per lo spettacolo improntato alla logica della sovvenzione e del sostentamento orientando i finanziamenti disponibili alle reali esigenze produttive secondo criteri che, per la prima volta, comprendono il merito nella selezione degli artisti e dei dipendenti, sulla base del loro valore e non più secondo logiche clientelari.

Tra gli altri articoli da promuovere le misure di tax credit sul cinema e le nuove modalità di finanziamento da parte di privati (non affrontato il problema degli incentivi e i privati esclusi dalla gestione diretta dei beni culturali) e altri interventi che toccano punte di innovazione come le disposizioni sull'arte contemporanea che prevedono l'assegnazione di atelier per gli artisti. Queste sono buone basi di partenza a cui però servono delle strategie di programmazione di medio-lungo periodo che il decreto ancora non delinea e che invece sono indispensabili. È giusto mettere mano al problema Pompei, ma che fare con le biblioteche nazionali che stanno chiudendo o con l'Archivio Centrale dello Stato, che detiene un patrimonio formidabile e dove non si può più lavorare per carenza di personale? Tutta questa rete culturale rimane tagliata fuori, ed esige scelte radicali sul modello, come quelle adottate in Francia. E ancora, sul fronte della digitalizzazione, il decreto puntando sulla formazione di 500 giovani, invece di valorizzare le cooperative e le società che si occupano di archiviazione già attive, varando un provvedimento fine a se stesso che non favorirà la creazione di un collante tra il patrimonio senza uguali di cui godiamo e le potenzialità delle tecnologie informatico-digitali fondamentali per valorizzarlo.

In attesa che si formino i 500 giovani si potrebbe correre il rischio di ridurre il Paese a mero fornitore di materia prima culturale, valorizzata da altri che ne ricaveranno benefici in termini di occupazione, innovazione ed economici. A fronte dei numerosi pro e di quei contro che lasciano ancora massicce questioni da affrontare, va comunque detto che per la prima volta, dopo decenni in cui la cultura è stata dimenticata e relegata alla voce "tagli", il governo approva un provvedimento dedicato esclusivamente alla cultura a cui dedica risorse.
Bene ha fatto il premier Enrico Letta a sottolineare, l'altro ieri, nel suo discorso prima della fiducia, l'impegno di questo governo per la cultura insieme all'istruzione, «fondamentali per la ripartenza» e a ribadirlo ieri commentanto il decreto. Attento però a non farlo diventare un'astrazione o un termine riguardante solo le glorie del passato. Singolare che non abbia sentito l'esigenza di spendere la parola «ricerca». Cultura oggi significa soprattutto capacità di rilanciare la ricerca, sia quella scientifica di base – che per antonomasia guarda al futuro –, sia quella umanista e artistica, che pure ha bisogno di un impegno di rinnovamento che la riporti ad essere competitiva con le maggiori istituzioni del mondo.

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