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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2013 alle ore 07:40.

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«Non siamo un ufficio anagrafe": così (immagino col rispetto dovuto a chi si occupa di nascite, decessi e matrimoni) il direttore del Piccolo Teatro di Milano, Sergio Escobar, aveva lanciato l'allarme sulle norme che recentemente hanno, di fatto, parificato i teatri stabili pubblici alle pubbliche amministrazioni, sottoponendoli ai vincoli della spending review. I risultati saranno paradossali: basti dire, per esempio, che i teatri, che di comunicazione vivono, dovranno subire pesanti limitazioni agli investimenti pubblicitari; o che per ricevere delle sponsorizzazioni dovranno bandire delle gare pubbliche.

Si sperava che in sede di conversione in legge del decreto «Valore Cultura», conclusa giovedì scorso, le storture più evidenti potessero essere rimediate. Ma le correzioni sono state minime, e comunque tali da non modificare l'impostazione dirigista che fa dei teatri stabili delle succursali di uffici pubblici, nonostante le previsioni contrarie della Ue. Ancora più paradossale è il risultato, appunto, per il Piccolo Teatro di Milano che, in quanto teatro d'Europa, dovrebbe ricadere sotto le norme del sistema europeo 2223/96 dei Conti (Sec 95) che espressamente esclude tale equiparazione.

Ma anche il decreto Valore Cultura contiene norme discutibili, per la tendenza a tornare precipitosamente indietro rispetto all'autonomia che, negli anni scorsi, si era faticosamente imboccata per le istituzioni culturali e, in particolare, per teatri stabili ed enti lirici, trasformati in Fondazione. Ne farà le spese soprattutto la Scala.

In base alle nuove norme, non solo il Consiglio d'amministrazione è stato declassato a semplice Consiglio d'indirizzo; ma il numero dei membri è stato ridotto (e questo vale anche per i teatri stabili), col prevedibile risultato che diversi soggetti privati, che non avranno più titolo per controllare come i propri soldi siano investiti e come il teatro sia gestito, preferiranno altri interventi nei quali venga riconosciuto il proprio apporto e venga attribuita qualche responsabilità (e, con gli oneri, qualche onore). Anche il Sovrintendente dovrà essere nominato ufficialmente dal ministero, con buona pace, di nuovo, della responsabilità che dovrebbe essere assunta da chi gestisce il teatro (e ci mette i soldi).

Naturalmente, la motivazione ufficiale del brusco cambio d'indirizzo è la condizione spesso drammatica di molti teatri di prosa e lirici che negli ultimi anni hanno subito decurtazioni drastiche del Fus, non trovano soci privati che li assistano e sono zavorrati da strutture di costi spesso insostenibili. Ma pensare di rimediare tornando allo statalismo d'antan è illusorio. Ed è perniciosa la tendenza, tutta italiana, di voler trattare tutti allo stesso modo: bravi e meno bravi, efficienti e lazzaroni, intraprendenti e sonnacchiosi, pur di non prendersi la responsabilità di decidere che a situazioni diverse possono corrispondere trattamenti diversi; non per umiliare, ma per individuare le modalità migliori di gestione.

E dire che in altre pieghe del decreto sembra far capolino la volontà di tenere conto dei miglioramenti gestionali, ed eventualmente di premiarli. La Scala e il Piccolo, infatti, non versano affatto nelle condizioni drammatiche di molti altri teatri, lirici e di prosa: alla Scala, quest'anno per la prima volta, i ricavi da botteghino (26,55%) supereranno quelli dello stato (26%); e il totale dei ricavi dal mercato supererà la soglia del 62%. Il Piccolo, da parte sua, ha il bilancio in pareggio da quindici anni. Era proprio in riconoscimento a questi risultati che, se mai, fino a qualche mese fa si discuteva della possibilità di riconoscere alla Scala e all'Accademia di Santa Cecilia maggiore autonomia, non di ridurla. Ieri peraltro il ministro Bray ha dichiarato di volere tenere conto di queste realtà virtuose.

Sarebbe del resto poco comprensibile la schizofrenia di chiedere a gran voce, a tutti livelli, da esponenti di ogni colore politico, l'apporto dei privati; salvo poi perpetuare, o ripristinare, logiche che sembrano fatte apposta per scoraggiare i bravi amministratori (che sono tanti) e per far scappare i privati.

Ma forse, da alcuni, è questo che si vuole: ribadire il principio che solo la mano pubblica può gestire la cultura; benché poi i risultati, in decenni, siano stati tutt'altro che lusinghieri: sia in termini di efficienza gestionale; sia, tanto meno, di allargamento dei consumi culturali a fasce sociali diverse da quelle (di livello medio-alto) che tradizionalmente consumano cultura (e, guarda caso, proprio alla Scala e al Piccolo pure questo risultato è stato raggiunto).

Questo accanimento neo-statalista non è un gran biglietto da visita per la Milano che si prepara, ormai con serietà, all'appuntamento dell'Expo: il considerare le sue massime espressioni culturali, note in tutto il mondo, come uffici pubblici da gestire da Roma con logica burocratica mortifica la cultura, la città e tutto il gran dibattito sulle nuove forme di gestione dei beni e delle istituzioni culturali e sull'esigenza di aprirsi all'apporto dei privati. Che non mancheranno di continuare a investire nella cultura: guardandosi bene dall'avere a che fare con uno Stato che fa di tutto per tenerli lontani.

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