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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2013 alle ore 07:56.
L'ultima modifica è del 13 ottobre 2013 alle ore 13:24.

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Alitalia è un buco nero: da decenni ingurgita soldi del contribuente, e li fa scomparire. Le abbiamo provate tutte.

Finché era pubblica abbiamo provato scorpori, cambi di management, ricapitalizzazioni; poi le abbiamo comprato i debiti per renderla più appetibile a un gruppo di "privati" legati a filo doppio con la politica, le abbiamo assicurato un monopolio triennale sulla rotta più remunerativa, e le abbiamo trovato persino banche compiacenti disposte a buttar via un po' di soldi dei loro azionisti per fare le solite "operazioni di sistema". Ora basta. Vendiamola, subito. Qualunque prezzo è benvenuto, pur di liberarci di questa palla al piede.
Per molti vendere Alitalia è tabù, perché è un "asset strategico" del paese, come ha ribadito il premier Letta. Ma cosa significa "strategico"? Un argomento portato da molti è che un proprietario straniero danneggerebbe il turismo. Si teme veramente che Air France (che peraltro non ha intenzione di comprare Alitalia) farà sbarcare a Nizza i milioni di turisti stranieri diretti a Roma, e li farà proseguire in treno, al fine di valorizzare un aeroporto francese? Qualcun altro ha in mente (come nel caso Telecom) questioni di difesa, e teme che una vendita di Alitalia ci privi della possibilità di requisire i velivoli per trasportare le truppe a Shanghai in caso di guerra con la Cina. Per altri "strategico" sembra essere equivalente a "prestigioso": per motivi mai meglio specificati un grande paese non può non possedere una compagnia di bandiera. Ma che orgoglio ci può essere nel tenere in vita un'azienda che perde soldi da sempre? Per certi politici e imprenditori regionali "strategico" significa "rafforziamo Malpensa a spese di Fiumicino", o viceversa, oppure ancora "manteniamo in vita questo piccolo aeroporto che non ha ragione di esistere".

Per politici e sindacalisti nazionali "strategico" significa "manteniamo in vita un'azienda dove siamo abituati a farla da padroni". Ma se c'è una lezione che dovremmo aver imparato dalla "privatizzazione" del 2008 è che non ci si può improvvisare manager di una compagnia. Ci vogliono competenze profonde, e se non le si hanno non bastano le connessioni politiche.
Come con un altro fallimento infinito, la Rai, periodicamente i governi sono costretti a spendere quel poco di capitale politico di cui dispongono in discussioni interminabili su un problema senza soluzione. Ogni volta si dice che sarà l'ultima e ogni volta si scopre che era la penultima. Una misura della situazione surreale è il ventilato intervento di Ferrovie dello Stato. In quali paesi del mondo le ferrovie gestiscono compagnie aeree? E non stiamo parlando di ferrovie normali, ma delle ferrovie italiane, la cui gestione è sotto gli occhi di tutti. Alitalia ha sempre avuto un problema con i sindacati, e vorremmo darla a una società che è ancora più loro ostaggio? Senza dimenticare che, se c'è un'azienda che ha interesse a dare il colpo di grazia ad Alitalia, questa è proprio Ferrovie dello Stato, che ha investito 20 miliardi per far concorrenza ad Alitalia sulla tratta Roma-Milano.

Al momento, la soluzione più gettonata è un aumento di capitale di 300 milioni sottoscritto per metà da Fintecna (cioè Cassa Depositi e Prestiti) e per metà dalle immancabili "banche di sistema" Intesa e Unicredit. Se è così, Letta si dovrà assumere la responsabilità di aver gettato al vento 150 milioni di euro del contribuente per fingere di mantenere in vita un cadavere, e i CdA delle banche si dovranno assumere la responsabilità di aver gettato al vento i soldi dei propri azionisti, rompendo il rapporto fiduciario cui si sono impegnati. Il tutto, per di più, per ritrovarci tra sei mesi a riparlare esattamente degli stessi problemi.

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