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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2013 alle ore 07:52.

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Ieri è stata inaugurata a Francoforte la Buchmesse ed è il momento solenne dei bilanci e delle prospettive per il libro, a livello mondiale, e per il libro in lingua italiana. Lo fa meritoriamente, ogni anno, l'AIE con il suo centro studi che si affianca alle analisi Nielsen per il Centro per la promozione del libro e delle lettura del Mibac.

Mai come in questi anni di rivoluzione digitale, di scomposizione e ricomposizione dei comportamenti sociali, bilanci e prospettive vanno tenuti uniti in un processo di analisi difficile, incerto, avventuroso. Ci muoviamo in un terreno sconosciuto. Non sappiamo quale sarà il modello di businness che consentirà, tra qualche anno, di finanziare l'industria del pensiero e dell'informazione. Non sappiamo come, e non sappiamo nemmeno «se» lo consentirà. Almeno per la lingua italiana. Sì perché noi facciamo confronti tra editorie differenti, ma omettiamo di considerare che la nostra, che era prima della grande crisi la quinta del mondo, opera con una lingua storicamente importante ma limitata nell'uso contemporaneo. 70 milioni di utenti, parlanti, contro il miliardo dello spagnolo, portoghese, mandarino, per non dire dell'inglese.Questa considerazione, da sola, cancella l'idea stessa di grande e piccola editoria. L'editoria italiana è tutta piccola, a causa del suo bacino di utenza linguistico.

Marco Polillo, presidente dell'AIE, ha commentato ieri davanti al ministro per i Beni culturali, Massimo Bray, i dati del 2012 e le proiezioni del 2013 (articolo qui a fianco, ndr). Sappiamo che il mercato ha registrato una riduzione in valore delle vendite globali di libri in Italia tra il 6 e l'8% (a seconda che si calcoli al lordo e al netto dei collaterali), che il volume complessivo del fatturato rischia di scendere sotto i 3 miliardi di euro, che sono pur sempre una realtà economica di primaria grandezza per l'economia nazionale. Sappiamo dai dati Nielsen sul primo trimestre che i canali di vendita che hanno più sofferto sono le librerie, le vendite rateali, le collezioni in edicola, e gli acquisti delle biblioteche. Sappiamo che sono aumentate a ritmo intenso le vendite on line. Che l'offerta di titoli in ebook è raddoppiata nel corso del 2012 e che punta ai 70 mila titoli. L'offerta c'è. La domanda? Il mercato dell'ebook rappresenta ancora poco più del 2%, ma sale al 3% dei lettori e per alcuni settori, come la fiction, arriva a punte del 5%. Questa situazione duale fa sì che il calo della lettura, sensibile nel biennio 2010-2012 si sia interrotto, anche se ai livelli insoddisfacenti che conosciamo.

La velocità del cambiamento è tale che dovrebbe spingere tutti a cambiare strategie. Eppure prevale la tendenza a frenare. Perché? Le ragioni di un certo conservatorismo editoriale sono robuste. La creazione del valore si concentra nella vendita del libro cartaceo. L'ebook non consente alle case editrici una politica di prezzo, che è determinata da Apple, Amazon e dagli altri oligopolisti internazionali. La percentuale del prezzo dell'ebook incassata dall'operatore internazionale è elevata e si aggiunge in Italia all'Iva non agevolata al 22%. All'editore e all'autore arriva in cassa meno del 50% del prezzo. Come si riuscirà a finanziare un'opera solo in ebook? Chi la finanziarà? Trincerarsi nella ridotta del libro cartaceo è un comportamento comprensibile, ma che non salverà l'editoria italiana. Perché se è vero che il segmento digitale comporterà ricavi molto inferiori, e dunque remunerazioni minori o nulle per gli autori, è vero anche che il processo è probabilmente inarrestabile. Tuttavia noi non sappiamo il livello al quale si stabilizzerà il mercato tra libro cartaceo ed ebook. Questo livello sarà la misura per salvare il futuro della nostra editoria.

Vivere senza editori è forse un sogno anarchico di qualche navigante digitale, ma esporrebbe gli autori in lingua italiana all'oceano degli oligopolisti internazionali dove la nostra lingua è residuale, e lo sarà sempre di più, se noi non agiamo con forza per difendere quella che i francesi chiamano la eccezione culturale. In ogni caso nulla eviterà agli editori di mutare organizzazione e finalità aziendale: chiudere gli occhi di fronte al digitale può impedire di cogliere opportunità che pur esistono per esempio nell'azione sui social network per creare comunità su singoli libri o su filoni editoriali.
Per queste ragioni, in questa fase, è importante difendere con tutti i mezzi i luoghi fisici della vendita e dello scambio dei libri - le librerie soprattutto (oggi strozzate da affitti eccessivi, costrette a rese sempre maggiori, spinte a creare spazio fisico per bar, caffè, ristorantini e gadget) - anche con strumenti provvisori. In questo senso la legge Levi sul prezzo del libro ha arginato la giungla degli sconti che favorisce monopolisti e oligopolisti, riduce i titoli offerti, soffoca le piccole case editrici e lo fa aggregando a questo interesse il povero consumatore, contento di avere uno sconto il più forte possibile. Ma lo sconto ideale è del 100%. Anzi oltre il 100%: ti regalo un libro se compri una pallina da tennis o un orologio. Sono politiche di dumping che hanno distrutto l'articolazione dei mercati dove non si è saputo porvi un argine. Perché se il libro non vale nulla, nessuno finanzierà più un autore, e la lingua italiana che è prevista scomparire entro l'anno 2300, e dimezzare le parole utilizzate entro il 2050, accelererà il processo di ripiegamento. Quindi festeggiamo i nuovi titoli, i nuovi autori che gli editori italiani presentano a Francoforte, è una vera festa, e anche un atto di autentico patriottismo.

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