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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2013 alle ore 07:44.
L'ultima modifica è del 28 ottobre 2013 alle ore 08:08.

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Il malfunzionamento dei concorsi universitari è stato addotto come motivazione per introdurre una fase nazionale abilitante che precedesse le selezioni locali. Tuttavia, la grande operazione delle abilitazioni nazionali per i ruoli di professore è ora in stallo. Anni di blocco delle carriere, limiti di accesso oggettivamente molto bassi (in alcune aree), e la perpetua sindrome da "ultima spiaggia" dei concorsi italiani, hanno "ingolfato" il sistema.
Ai commissari, impegnati "anche" nelle normali attività universitarie (ricerca, docenza, e tanta burocrazia di contorno) è stato chiesto di trovare il tempo per valutare centinaia e centinaia di prodotti di ricerca. Per alcune abilitazioni il tempo richiesto per la sola lettura delle pubblicazioni si è subito dimostrato superiore ai limiti imposti dalla fisica. Da qui le proroghe dei termini, fino all'ultima con scadenza a fine novembre.
A questo stato di cose, poco tranquillizzante, si è aggiunta la sovrapposizione con la seconda tornata di abilitazioni bandita ottimisticamente dall'ex ministro Francesco Profumo con scadenza per presentare domanda al 31 ottobre. Bel guaio. Che fare se il primo turno non è finito? Potrebbero gli interessati fare nuova domanda e poi ritirarla?
Le norme parlano chiaro: chi ha fatto domanda per un'abilitazione (la prenda o non la prenda) "salta il turno" successivo.

Ma che fare se c'è già chi mette in giro la voce (ad arte?) che la prima abilitazione potrebbe essere annullata o bloccata dai ricorsi? Un'ulteriore tempesta amministrativa alla quale seguirà, se e quando, una stagione di concorsi locali con tempi lunghissimi e ampia materia per avvocati e tribunali amministrativi. Non ne usciremo mai.
E se il problema fosse proprio lì? Nei concorsi?
Qual è l'idea base di un concorso? La competizione tra più persone in possesso di titoli confrontabili per svolgere la medesima mansione, si direbbe. E infatti molti sono convinti che i docenti universitari siano intercambiabili: un chimico vale l'altro, un fisiologo, un economista vale l'altro e via dicendo, come nella scuola, basta che insegnino bene e con passione.
Invece non è così, perché insegnare è solo metà del lavoro universitario. All'università chi fa ricerca insegna e chi insegna fa ricerca. È il necessario, continuo "travaso" tra conoscenza da trasmettere e conoscenza da acquisire, facendo ricerca alla frontiera di una conoscenza, appunto.

Già questa considerazione potrebbe bastare per capire perché la scuola e l'università sono diverse, ma ce ne sono altre. Il docente-ricercatore oggi deve anche procurarsi i finanziamenti per fare ricerca, quindi scrivere progetti, e collegarsi ad altri ricercatori nel mondo, alle imprese siano esse sociali o industriali, agli enti locali, ai ministeri. E poi deve occuparsi di trasferire al mondo quanto produce con terapie e cure, invenzioni e scoperte, ma anche con musica, teatro, cinema, storia e letteratura.
Il docente-ricercatore, poi, partecipa direttamente alla gestione della macchina universitaria: rettori, prorettori, direttori di dipartimento, presidenti di scuole, coordinatori di dottorato eccetera sono professori universitari. Come si può pensare che – con questa molteplicità di compiti – l'accesso alle carriere universitarie sia basato sul "paradigma concorsuale" come quello di altre figure del pubblico impiego?
Faccio un esempio calcistico: nessuno penserebbe di assumere un terzino per... concorso, così come nessuno penserebbe che un ottimo attaccante possa andare bene anche se la squadra ha bisogno di un portiere. Lo capiscono tutti. Così come nessuno (primo tra tutti il paziente...) sarebbe contento di sapere che, per la cardiochirurgia toracica, è stato scelto un ottimo gastroenterologo, quello con l'H-index migliore.

Ricercatori e studiosi non sono intercambiabili. Intendiamoci, tanti reclutamenti e tante promozioni all'università sono fatti male, molti – troppi – meritevoli sono stati schiacciati e persi, e molto spesso nel pieno rispetto delle procedure concorsuali, anzi, a volte, proprio grazie alle procedure concorsuali che hanno fornito completa copertura a scelte non trasparenti.
Che cosa fare quindi? Si potrebbe forse provare l'unica strada che non abbiamo ancora imboccato: lasciare che le università assumano chi serve e quando serve per poi valutarle e finanziarle sulla base dei risultati ottenuti nella formazione e nella ricerca. Questi risultati dipenderanno dalla qualità del personale assunto e promosso in maniera trasparente.
Prorettore alla Ricerca
Alma Mater Studiorum Università di Bologna

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