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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2014 alle ore 08:04.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:50.

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Raddoppiata la disoccupazione rispetto a sei anni fa, perso il 15% della capacità manifatturiera e chiuse 32mila imprese di piccole e medie dimensioni, secondo Confindustria si paventa per il futuro un dimezzamento del nostro tasso di crescita potenziale. È dunque evidente che il Paese è in debito d'ossigeno imprenditoriale. In sostituzione di quelle già uscite dai mercati, dovrebbero nascere imprese innovatrici e moltiplicatrici di occupazione. Fertilità e natalità di start up non sono chimere.

Il terreno è ricco di humus imprenditoriale che potrebbe essere più e meglio irrigato dalla ricchezza del Paese, di molto superiore al Pil. Il fatto poi che essa sia più concentrata che nel passato – la disuguaglianza nella sua distribuzione è aumentata di 1,5 punti percentuali tra il 2007 e il 2011 – dovrebbe indurre i responsabili della politica economica a prendere misure per farla convogliare verso il finanziamento delle start up. Con i cambiamenti strutturali che hanno scosso la base produttiva distruggendone le parti più deboli, la nuova imprenditorialità è il veicolo del progresso economico. Guai se l'insorgente attività imprenditoriale early stage (Tea), quella coperta dalle persone in procinto di creare un'impresa e dalla altre che guidano start up con meno di tre anni e mezzo di vita, si riducesse a una microscopica cruna di un ago attraverso cui dovrebbe passare la futura crescita economica del paese.

Allo stato attuale delle cose, l'indicatore Tea del Global Entrepreneurship Monitor (Gem) non segnala forte tensione imprenditoriale in Italia. Con il Giappone condividiamo il primato negativo del più basso tasso Tea: 3,4% da noi, 3,7% nel Sol Levante. Nell'Unione europea a 28 (Ue-28), ci troviamo sotto la media e parecchio distanziati dai Paesi "forti", sia dagli altri grandi (Germania, Francia e Regno Unito) sia dagli scandinavi (Svezia e Finlandia). In percentuale rispetto alla popolazione adulta (tra i 18 e i 64 anni), le opportunità imprenditoriali percepite in Italia sono più di 10 punti inferiori alla media Ue-28 (17,3 contro 28,7). Eppure, l'imprenditorialità è considerata una buona scelta di carriera più dai noi che tra i "forti" e nella media europea (65,6 contro 56,9). Cosa spinge in basso l'asticella del potenziale imprenditoriale dell'Italia rispetto al suo livello europeo? Vi contribuiscono la sindrome del fallimento, che ha la sua causa in un gene "sbagliato" della nostra intelligenza imprenditoriale (la paura di fallire è a quota 48,6 contro il 39,8 nella media Ue28), la minore partecipazione femminile (tre volte sotto la media), la carenza di educazione imprenditoriale anzitutto nella scuola elementare (1,7 rispetto a 2,1) e poi nelle scuole superiori (2,6 contro 2,8), il fatto che l'imprenditorialità non è in Italia una questione economica così rilevante come negli altri Paesi dell'Unione (30% sotto la media).

A dispetto dell'impegno profuso per lo Startup Act, la popolazione adulta italiana giudica debole l'intervento pubblico a favore della nuova imprenditorialità. Secondo gli esperti intervistati in occasione della stesura del Gem 2013, imprenditori nascenti e baby imprenditori continuano a ricevere scarso sostegno dall'azione governativa.
I successi inanellati dalla nostra manifattura dimostrano che l'imprenditorialità italiana è tutt'altro che priva di personalità. Nel tempo del cambiamento si deve rinverdirla con un maggiore e più raffinato impegno del governo e della comunità nazionale per alzare quantità e qualità dell'imprenditorialità nascente e in fasce. Perché sono ancora poche le start up che creano lavoro e poche quelle con promettenti aspettative occupazionali. Perché rispetto alla media Ue-28 è ancora nella fase di bassa marea la prospettiva che le nuove imprese siano madri feconde di occupazione.
piero.formica@gmail.com

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