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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2014 alle ore 10:04.

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Processo «pilota» secondo la definizione più asettica, «simbolo» secondo quella più appassionata, la battaglia giudiziaria sugli swap di Palazzo Marino ha catalizzato l'attenzione della finanza per due ragioni.
È stata la prima a portare sul terreno penale, per truffa aggravata, un'operazione in derivati condotta con un ente pubblico, ed è andata dritta al cuore del problema: quello dei «costi impliciti» del prodotto finanziario offerto dalle banche al Comune. Un prodotto finanziario, oltretutto, costruito a "copertura" del più grande bond locale d'Europa, quello da 1,685 miliardi emesso nel 2005 dal Comune di Milano all'epoca guidato da Gabriele Albertini.

La scena, insomma, era di prim'ordine, ma è stata soprattutto la trama a portare subito al centro dell'attenzione la vicenda dei derivati milanesi. Per capirlo bisogna mettere da parte la complessità della struttura finanziaria, e degli argomenti giuridici che l'hanno circondata in Tribunale, e guardare al nocciolo della domanda: gli swap, che ristrutturano un debito precedente e generano uno scambio di flussi finanziari fra banca e contraente, devono nascere in perfetto equilibrio, facendo pareggiare entrate e uscite e lasciando all'evoluzione dei tassi l'esito finale, o possono prevedere un costo iniziale per "pagare" il prodotto finanziario e la banca che lo confeziona?

Messa così, è la stessa domanda che si pone qualsiasi investitore quando chiede un finanziamento, e sa che il tasso proposto è superiore a quello spuntato dalla banca nella ricerca della provvista sul mercato. Quando i soldi sono pubblici, però, la questione si complica, perché per legge (e per logica) le operazioni avviate dagli enti pubblici sono legittime se prospettano una «convenienza economica», cioè se il debito ristrutturato con lo swap promette di costare meno rispetto a prima della cura. Se i contratti non chiariscono i costi, i calcoli di convenienza economica sono falsati, e da lì nasce l'accusa di truffa.
Proprio per questo carattere cruciale della domanda in gioco, replicabile alle migliaia di casi in cui i sindaci hanno incrociato la finanza strutturata, il processo è diventato «simbolo», e tale può diventare la vittoria spuntata ieri dalle banche in Corte d'appello. Una vittoria piena, per di più, e parallela a quella rimediata in Consiglio di Stato da Dexia Crediop e Depfa Bank nel novembre 2012: in quel caso la giustizia amministrativa ha negato alla Provincia di Pisa l'annullamento dei contratti, sostenendo che i «costi impliciti», in particolare nei derivati pre-2007 (direttiva Mifid), non sono in sé illegittimi, e non bastano da soli a cancellare la convenienza economica.

Con i simboli, però, è meglio andarci piano. Quella dei "sindaci-speculatori", e dei Comuni anche piccoli e piccolissimi che si sono lanciati nella finanza creativa a volte senza conoscere una parola dell'inglese in cui sono scritti i contratti, rimane una storia piena di ombre, di operazioni-fotocopia venute in serie spesso sventolando un assegno iniziale per invogliare all'acquisto. Lo dimostrano le inchieste che hanno coinvolto negli anni operazioni per quasi 10 miliardi (un quarto del totale degli swap negli enti locali), e le centinaia di Comuni che sono riusciti a uscire in anticipo da operazioni rivelatesi rischiose solo minacciando azioni legali.

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