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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 09:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:14.

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Le terribili tragedie che si consumano tra le pareti domestiche, purtroppo così frequentemente da contendersi lo spazio delle cronache, ci lasciano muti e disarmati di fronte a quello che la tradizione cristiana ha sempre chiamato il mysterium iniquitatis.
L'impensabile ed inimmaginabile, l'indicibile accade.
Nonostante tutti i tentativi di esorcizzarlo, l'abisso orrido e immenso (per rubare un celebre verso leopardiano) del male sembra annichilirci.

Sulla stampa di questi giorni si sono moltiplicate le analisi, spesso lucide ed equilibrate, degli "esperti" per risalire alle cause - sia quelle immediate e scatenanti che quelle remote e profonde - di azioni così enormi. Ma non ci sono spiegazioni che ultimamente convincano o riescano a colmare la voragine di quel "perché?" che si è aperta nel nostro cuore. D'altra parte sappiamo bene, per averlo toccato con mano in altre occasioni altrettanto dolorose e drammatiche, che la com-passione, quando si ferma al livello emotivo e non raggiunge quello del giudizio e del paziente lavoro educativo, è destinata a spegnersi velocemente, riassorbita dall'individualismo dominante.
Lo scorso 9 marzo, a poche ore dalla tragedia di Lecco, invitando tutti a pregare, ho parlato di cuore trafitto per lo smarrimento e di impotenza non priva di responsabilità. Non riusciamo a disinnescare la potenza del male ma, nello stesso tempo, non possiamo chiamarci fuori. Vorrei partire da qui per offrire qualche ulteriore pista di riflessione.
Anzitutto, al di là di tutti i discorsi sul suo evolversi e senza voler minimizzare i colpi ad essa inferti dalle divisioni tra gli sposi e dalle ferite dei figli, viene prepotentemente alla ribalta l'esperienza elementare della famiglia.

Essa, in forza delle due differenze inscritte nel suo Dna (tra uomo e donna e tra genitori e figli), resta il grembo ideale in cui la persona è generata, custodita e fatta crescere. Qui il carattere relazionale dell'io emerge in tutta la sua forza e con tutto il suo potenziale di gratuità. Nonostante le persistenti difficoltà ed i martellanti messaggi oppositivi, i giovani - i dati statistici ne danno costante conferma - tenacemente continuano a mettere la famiglia in testa alla loro scala di valori. Ma il nostro mondo di adulti come risponde a questa loro fiduciosa aspettativa? Quale immagine di amore trasmettiamo loro? Che cosa passano in proposito i mass-media e i social network? La prospettiva di un amore oggettivo ed effettivo che, senza ignorare la passione, non ha paura di misurarsi con il sacrificio e con il dovere perché li riconosce come strada al compimento, o quella di un amore puramente soggettivo ed affettivo, esposto alla precarietà e all'ambivalenza dei sentimenti e perciò costituzionalmente fragile e potenzialmente distruttivo? Come educare, ed educarci, a relazioni d'amore solide e mature, in grado di lasciar essere l'altro per se stesso, senza rinchiuderlo dentro la gabbia della nostra pura passione con le sue frustrazioni?

Quando vi si verificano terribili fatti di sangue come quelli di questi giorni, la famiglia ci appare più che mai indifesa e trascurata, abbandonata alla propria sofferenza e solitudine.
Qual è la via di uscita? La proposta, ancora una volta, di una forte e convinta amicizia civica, tesa alla vita buona e all'edificazione del bene comune, che riconosca nella famiglia una realtà originaria e fondamentale da promuovere in tutti i modi, anche con adeguate politiche familiari.
Fin dalle prime ore dopo la tragedia di Lecco, la città si è trovata unita «senza parole di rancore, di vendetta o semplificazione» come ha constatato il Sindaco. E la sera prima che i corpi delle bambine uccise fossero riportati in Albania, alla Messa di suffragio, partecipata da una gran folla di persone, erano presenti anche i parenti stretti, di religione musulmana.
Sotto la volta della grande Basilica sono risuonate le parole del padre, nella struggente lettera di commiato alle figlie. Parole di fede certa nella vita oltre la morte, di umile richiesta di perdono, di non vendetta di fronte al gesto incomprensibile della moglie, di gratitudine alla Chiesa per quel gesto di preghiera. All'inizio della Messa il sacerdote celebrante così si era rivolto ai parenti: «Siamo qui nel pieno rispetto della vostra fede e della vostra tradizione religiosa, ma noi non avevamo niente di più prezioso da dirvi e da darvi se non Cristo e Cristo crocifisso».

Questi non sono fatti interreligiosi riservati ai credenti. Parlano a tutti. In essi la pietas, che riconosce l'originaria dipendenza dell'uomo da Qualcuno di più grande, rivela agli uomini la loro fraternità costitutiva.
Per questo misteriosamente, ma realmente, anche la prova più tragica e dolorosa può trasformarsi in occasione di speranza e di vita. Sempre il sacrificio - e tanto più il sacrificio innocente - ha una sua segreta, indistruttibile fecondità.
Il cardinale Angelo Scola è arcivescovo di Milano

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