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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2014 alle ore 06:15.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:15.

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«Il fenomeno si chiama re-shoring o on-shoring, il contrario di off-shoring: il rimpatrio cioè di attività manifatturiera e di servizi negli Stati Uniti, che dopo venti anni di emigrazione in Asia torna a casa. Una tendenza che inizia ad assumere dimensioni consistenti promettendo di aumentare nei prossimi anni», dice Robert F. Wescott, a margine della Global Megatrends Conference di Credit Suisse svoltasi martedì a Milano.

Wescott è un osservatore privilegiato di "Corporate America" poiché è stato dal '99 al 2001 consigliere economico di Bill Clinton, degli ex segretari al Tesoro, Robert Rubin e Larry Summers e forse in futuro di Hillary. Oggi è presidente della Keybridge Research LLC, società di ricerca economica e finanziaria a Washington.
«Oggi negli Usa rientrano 50mila espatriati dalla Cina all'anno. Numeri modesti rispetto alle dimensioni del mercato del lavoro americano» spiega Wescott ma che danno il polso di un'inversione di tendenza importante. Oggi l'industria manifatturiera statunitense impiega 12 milioni di lavoratori contro i 17 di vent'anni, ma in «Texas Google ha iniziato a fabbricare il primo smart-phone disegnato in Californa ma prodotto, dopo oltre venti anni in territorio degli Stati Uniti. Anche la Lenovo sta producendo un lap-top in North Carolina, e la Mercedes Benz aprirà uno stabilimento di autovetture in Alabama, che ha garantito cinque anni di esenzione fiscale e la costruzione di una università locale di ingegneri e tecnici automobilistici».

«La manifattura è tornata ad essere attrattiva negli Usa grazie a una serie di fattori strategici: il calo del costo dell'energia con la rivoluzione tecnologica dello shale e oil gas», come descrive anche l'ultimo libro del presidente dell'Eni, Giuseppe Recchi. «Un elemento che ha reso possibile costruire sei nuovi impianti chimici per un investimento di 5 miliardi di dollari. Inoltre in Cina sono aumentati i salari passati da 22 cent all'ora a un dollaro e in alcune aree fino a 3 dollari. Negli Usa la paga media è di 7,75 dollari l'ora, ma la produttività americana è tripla rispetto a quella cinese», spiega Wescott. Un vantaggio notevole.
«Le grandi società Usa sono sedute su una liquidità di cassa di 2mila miliardi di dollari», svela Wescott. Negli Usa non c'è credit crunch come in Europa perché il sistema finanziario è tornato alla normalità dopo la crisi: le sofferenze del settore industriale e commerciale (esclusi i mutui sulle case) sono tornati all'1% dopo aver toccato il picco del 3%.

Le imprese americane possono rivolgersi alle banche, al mercato dei bond, al venture capital, alla borsa; è un sistema molto meno bancario-centrico di quanto sia quello europeo.
Tutto bene, dunque al di là dell'Atlantico? «No, ci sono dei problemi all'orizzonte e sono quelli indicati da Richard Fisher (della Fed di Dallas) e Charles Plosser (della Fed di Filadelfia) e si chiamano "lite covenant bond o "bond lights" che a causa dei rendimenti vicini allo zero spingono i risparmiatori a ridurre le garanzie tradizionali e aumentare i rischi dell'investimento. Ne sentiremo parlare ancora perché potrebbero essere i futuri subprime causati da una politica monetaria troppo espansiva. Ma per ora godiamoci il ritorno a casa della manifattura Usa e un'economia che corre al 3% annuo.

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