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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2014 alle ore 07:35.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:16.

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Una economia italiana sempre più integrata nell'ordito manifatturiero europeo. Con una identità e una specializzazione - il medium tech - in grado di assegnarle una posizione precisa sulle mappe del capitalismo globale. Questa identità tecno-produttiva permette alla nostra economia (e dunque a tutta la nostra società) di disporre di una speciale membrana di collegamento con i mercati globali. Una membrana - composta anche dalla comunità - in grado di assorbire dal mondo esterno competenze e merito, diffondendo nel corpaccione del nostro Paese questi agenti virtuosi.

Ma, anche, capace di catalizzare competenze e merito nei (non pochi) tessuti sani di questo strano Paese chiamato Italia, trasferendoli poi verso i mercati stranieri. Avanti e indietro. Con efficienza.
Gianfelice Rocca, presidente del gruppo Techint, ha presentato ieri sera, alla Fondazione Corriere della Sera, il volume "Riaccendere i motori. Innovazione, merito ordinario, rinascita italiana". Questo saggio è il risultato non soltanto dell'esperienza imprenditoriale in una realtà industriale ultra-globalizzata (oltre a Techint, ci sono Tenaris, Ternium e Tenova), condotta insieme al fratello Paolo, entrambi nipoti di Agostino Rocca, uno degli ideatori - ai tempi di Oscar Sinigaglia - dell'assetto della siderurgia italiana. È anche l'esito dell'impegno pubblico, prima come vicepresidente di Confindustria con la delega all'education e adesso come presidente di Assolombarda, dunque a capo della più veloce e robusta delle locomotive della manifattura nazionale (a proposito di vita pubblica, sul nuovo Governo Rocca ha detto: «bene i titoli di testa di Renzi. In lui c'è una grande voglia di fare. Ha però delle difficoltà e per questo il supporto che gli si può dare è importante. In questo momento dobbiamo sostenere chi cerca di cambiare il Paese»).

Con Rocca - in un incontro moderato da Ferruccio de Bortoli, che ha definito il libro «un grande atto d'amore di Rocca verso l'Italia e la sua industria» - c'erano il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, Romano Prodi e Andrea Pontremoli, ex Ibm diventato nel 2007 imprenditore con la Dallara, quella delle macchine da corsa di Indianapolis. «Il medium tech - ha spiegato con passione Rocca - è innovazione incrementale e combinatoria. Formazione e mondo del lavoro. Territorio e mercati globali». Questo siamo. Manifattura e incontro con gli altri. Quello che spesso non si vede perché oggi è in voga la velocità: la finanza, la superscienza. «Il mondo contemporaneo - ha riflettuto Rocca - sembra non accorgersi dell'industria. In particolare di quella che ha un timbro europeo, che è soprattutto tedesco e italiano». Un timbro che non spacca i timpani. Ma che riesce a comporre sinfonie dalle architettura sofisticate e affascinanti. Tanto che, nel suo saggio, Rocca cita 285 nicchie in cui l'Italia è prima al mondo. «Nicchie - ha aggiunto Squinzi - in cui c'è spazio anche per le note dell'high-tech. Penso all'evoluzione della durabilità ormai centenaria del calcestruzzo».

Una polifonia suonata, nella storia dello sviluppo italiano, soprattutto da ingegneri e tecnici. «Tutti dotati - ha chiosato Prodi - della capacità di unire competenze diverse. L'ultimo ingegnere che ho conosciuto a Bologna lo chiamano, in tutto il mondo, "no problem"». Appunto, no problem: nel senso della capacità di intrecciare ambiti diversi, di usare codici differenti, sempre con l'obiettivo di trovare soluzioni nuove. «In questo - ha aggiunto Pontremoli - dobbiamo avere l'orgoglio di quello che siamo. Non dobbiamo rincorrere modelli alternativi. Il nostro è fatto di impresa, territorio, solidarietà. E formazione. Oggi dobbiamo puntare soprattutto su quest'ultimo aspetto». Identità e formazione. «Occorre ritrovare lo spirito che animava i nostri genitori», ha sottolineato Squinzi. «Dobbiamo trovare i fondi per le scuole tecniche», ha aggiunto Prodi, che ieri sera ha ricordato la complessità di un Paese in cui la pubblica amministrazione è una zavorra e in cui la concertazione è resa complicata da «un pluralismo sindacale che è una vera palla al piede».

Dunque, formazione, formazione e formazione. È questa una delle prime forme di politica industriale di cui il Paese ha bisogno. Anche perché il futuro non riserva alcuna certezza. Un Prodi in gran forma («dico ancora una cosina e poi torno in provincia, dato che Milano mi dà sempre soggezione») ha poi tirato fuori l'anima dell'economista industriale, quasi di fabbrica: «È in corso un salto tecnologico. La meccanica è sempre stata basata sul togliere. Ora siamo al passaggio dell'aggiungere. Le macchine a tre dimensioni stanno rivoluzionando la manifattura». Le rivoluzioni non sono pranzi di gala. Se vogliamo stare a tavola, gli ingegneri e i periti meccanici devono tornare al centro delle policy di questo Paese, che alla manifattura deve molto, moltissimo.

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