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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2014 alle ore 07:07.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:53.

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Diversificare il patrimonio, in particolare alleggerendo l'esposizione sulla banca conferitaria, da sempre è l'obiettivo delle Fondazioni italiane. Obiettivo dichiarato da tutte, ma finora attuato per libera scelta (e non per disperato bisogno) da poche: i corsi di Borsa fino a ieri negativi, la necessità di dare stabilità alle banche e i punti interrogativi su chi avrebbe preso il posto eventualmente lasciato libero hanno spinto gli azionisti storici a tenere le posizioni, finanziando – non senza il consenso della Vigilanza – onerosi aumenti di capitale e chiudendo un occhio su dividendi magri o comunque spesso inferiori al passato. E il conto, come non ha mancato di rilevare Mediobanca Securities con un nuovo studio pubblicato a inizio febbraio è stato salato: i patrimoni degli enti, tra il 2010 e il 2012, si sono impoveriti del 16%, costringendoli a sforbiciare le erogazioni sul territorio del 30%.

Ora, però, qualcosa sta cambiando. In Borsa le banche corrono, in alcuni casi hanno già oltrepassato i valori di carico degli enti; e dall'estero si affacciano investitori – BlackRock su tutti, salito da inizio anno oltre il 5% di Intesa Sanpaolo, UniCredit e Mps – che fanno professione di stabilità. Morale: una dopo l'altra, stanno cadendo le ragioni finora buone per non vendere. Anche perché per le Fondazioni aumenta il rischio di veder comunque ridimensionato il proprio ruolo dentro alle banche, dove a decidere – o per lo meno a nominare chi decide – saranno sempre di più gli investitori istituzionali. In pratica, quanto basta per prefigurare una stagione nuova, in cui si allenteranno storici legami e ognuno si concentrerà sul proprio mestiere: le Fondazioni sui patrimoni e gli interventi a favore di welfare e cultura, le banche sulla redditività, gli investitori istituzionali sull'efficienza della governance.

Mercoledì scorso il presidente del CdS di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, ha sorpreso tutti giocando d'anticipo: «Le Fondazioni sono disponibili a lasciare il campo», ha dichiarato. Una morbida sassata, la sua, prontamente raccolta il giorno dopo da Giuseppe Guzzetti, presidente dell'Acri e di Fondazione Cariplo (che proprio ieri ha presentato un nuovo, innovativo bando sul secondo welfare di cui Il Sole 24 Ore aveva parlato il 15 gennaio): «Noi investiamo se abbiamo ritorni interessanti, altrimenti disinvestiamo». Chi lo ha già fatto, intanto, non si è pentito. Come Fondazione Roma, con il presidente Emmanuele Emanuele da sempre tra i massimi sostenitori non solo della diversificazione ma addirittura dell'uscita completa delle Fondazioni dal capitale delle banche. Come Fondazione Roma, altri 22 enti a luglio 2013 non avevano più partecipazioni nella banca conferitaria. Sono 53, invece, gli enti con partecipazioni minoritarie e 13 quelli di minori dimensioni che hanno mantenuto una quota di maggioranza (come consentito dalla legge). La sensazione, però, è che ciò che ieri non è accaduto possa verificarsi presto. Magari gradualmente, senza traumi e non prima di aver incassato i dividendi (per chi li aspetta), ma comunque presto. Certamente, come ha confermato lo stesso presidente Abi, Antonio Patuelli, «la presa di posizione di Bazoli consentirà di aprire una riflessione innovativa su questa tematica, che superi delle rituali giaculatorie le quali oggettivamente, in questa fase, sono assolutamente superate dai fatti». «Credo – ha detto ancora Patuelli – che debba essere cambiata la vulgata esterna secondo cui è necessario che le Fondazioni escano o scendano nei capitali delle banche. Questa vulgata era già miope in partenza e oggi è sostanzialmente ribaltata: chi ha un investitore istituzionale stabile, non speculativo e di lunga prospettiva italiano nel capitale d'ora in poi avrà un elemento invidiabile di indiscussa positività». E per le Fondazioni, defilate dalla ribalta, sarà più facile vendere.

@marcoferrando77
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