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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2014 alle ore 06:38.

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e Fabiano Schivardi
Il nostro tasso di disoccupazione ha raggiunto il 13%, il doppio di quello che negli Stati Uniti ancora preoccupa il presidente della Fed, Yellen. Da noi, molta attenzione e dibattito sono dedicati alle riforme strutturali che potrebbero contribuire al potenziale di crescita e occupazione. Leggendo bene le statistiche internazionali e le survey comparative, c'è un paradosso che salta agli occhi ed al quale ha accennato il ministro Padoan riferendosi ai famigerati lacci e lacciuoli. Se confrontiamo gli indicatori delle normative, in molti ambiti del mercato dei prodotti e del lavoro l'Italia non sfigura tra i paesi avanzati se valutata in base alla minor restrittività della regolamentazione. Ad esempio, siamo in linea con la media Ocse se guardiamo al mercato dei prodotti. Ma se ci riferiamo invece alle percezioni degli operatori economici, per esempio quelle sulla facilità nel fare impresa della Banca Mondiale, sprofondiamo al 65° posto tra 190 paesi di tutto il mondo, ben distanti dal Rwanda e dall'Armenia. Se le riforme vengono fatte ma le percezioni restano quelle di un ambiente sfavorevole all'impresa, agli investimenti ed all'occupazione, il consenso per le riforme stesse non può che scemare. Ma perché questo divario tra norme e percezioni?
Una possibilità è che le riforme siano sulla carta, ma poco calate nella realtà, poco condivise e quindi poco apprezzate. Qui si apre la pagina buia dei decreti attuativi che ritardano o mancano di tradurre norme anche apprezzabili in atti e comportamenti conseguenti. Oppure la pagina sciagurata di un Titolo V della Costituzione riformato anni fa per compiacere la vague federalista ma che nel concreto ha moltiplicato i centri decisionali, i poteri di veto e gli oneri burocratici a carico del settore privato. Ad esempio, la riforma Bersani del commercio degli anni Novanta aveva sulla carta diversi aspetti positivi che si sono tradotti in realtà ma solo laddove le Regioni e gli enti locali non si sono frapposti alla sua attuazione. Altrove invece sono state introdotte a livello locale procedure che in alcuni casi andavano nella direzione opposta rispetto allo spirito della legge. Speriamo che a queste gravi pecche il Governo ed il Parlamento pongano presto rimedio.
Una possibilità diversa, ma complementare alla precedente nelle sue ricadute negative sull'efficacia ed il consenso per le riforme, è che la percezione della facilità nel fare impresa e occupazione non dipenda solo dalla qualità media delle norme, ma anche dalla loro variabilità nel tempo. Prendiamo ad esempio la riforma del mercato del lavoro: in un mondo ideale, una discussione pubblica che coinvolgesse i soggetti economici interessati potrebbe individuare i caratteri fondamentali della normativa più adatta al nostro Paese. Si tratterebbe poi, nel tempo, di far convergere il sistema di regole verso lo standard così definito ed eventualmente adattarlo ai mutamenti socio-economici e tecnologici che lo richiedessero. Ma, appunto, questo sarebbe un mondo ideale. Nella realtà, abbiamo assistito nell'ultimo ventennio ad oscillazioni molto ampie nella direzione intrapresa con la legislazione sul mercato del lavoro. Per sintetizzare in modo un po' semplicistico, il pendolo è passato dalla deregolamentazione delle fasi Treu-Sacconi, ad un tentativo di limitare il tempo determinato con Damiano, all'impianto della legge-Fornero per introdurre un sussidio di disoccupazione a fronte di una minor flessibilità in entrata, ad una nuova oscillazione del pendolo verso il lavoro a tempo determinato con Poletti, in attesa che il Jobs Act introduca il contratto a tutele crescenti.
Difficile pensare che questa volatilità della legislazione non abbia prodotto effetti nella percezione di imprese e lavoratori. Da una parte ha aumentato l'incertezza: chi assume, anche a tempo determinato e soprattutto nella manifattura, lo fa in gran parte sulla base di piani pluriennali che prevedono investimenti materiali ed immateriali, ed il pendolarismo ripetuto delle norme non può che danneggiare la percezione e la fiducia degli operatori. D'altra parte, il susseguirsi anche contraddittorio delle norme e delle procedure, non fa che ampliare spazi e potere della burocrazia pubblica. Che nelle continue transizioni da una modello all'altro può ancor meglio calibrare i veti e le autorizzazioni, con costi, ritardi e arbitrarietà che restano tutti a carico dei privati. Più opacità, più sovrapposizione di norme anche divergenti, più spazi per le interpretazioni della Pa: è anche cosi che si apre il divario tra la qualità delle leggi e le percezioni dei cittadini.
smanzocchi@luiss.it
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