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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2014 alle ore 06:38.
Non solo «credit crunch». Il tema del razionamento dei finanziamenti bancari nei confronti della clientela è stato analizzato in lungo e largo negli ultimi mesi. Meno si è invece discusso di un altro aspetto, non certo secondario: l'uso che le aziende hanno fatto dei prestiti ricevuti e soprattutto i profitti (insufficienti) che sono stati generati attraverso l'impiego di questo capitale. Un modo di affrontare il tema della crisi che attanaglia l'industria italiana da un diverso punto di vista, questo, che è alla base della ricerca «Giocare d'attacco per difendere il capitale» realizzata nell'ambito del Club Ambrosetti, guidata da Mauro Bini in qualità di advisor e da Filippo Peschiera come project manager.
Lo studio, che sarà presentato domani a Cernobbio, prende in esame i bilanci di circa 8mila imprese manifatturiere italiane con fatturato superiore a 10 milioni di euro dal 2004 al 2012 per giungere a una conclusione dal sapore forse un po' provocatorio, ma decisamente stimolante: ciò che serve per rilanciare il sistema produttivo italiano è una profonda ristrutturazione tesa a separare le attività «buone» delle imprese da quelle «deteriorate».
Occorrerebbe dunque creare, alla stregua di ciò di cui si sta discutendo per le banche, una sorta di «good company» in grado di attirare più facilmente nuovi capitali per lo sviluppo e una «bad company» composta da attività da liquidare, anche se in perdita. Isolare gli attivi di qualità, sostiene lo studio Ambrosetti, consentirebbe di attirare nuova finanza per 7 miliardi e realizzare sinergie per 37 miliardi anche senza assumere alcuna crescita del fatturato delle imprese coinvolte, ma un recupero di redditività: una creazione di valore tale da compensare le inevitabili perdite sugli attivi deteriorati.
Sotto l'aspetto analitico, lo studio ha isolato un campione di imprese «critiche» che mostrano un capitale investito contabile superiore a 5 volte il Margine operativo lordo (Ebitda) oppure che hanno margini negativi, evidenziando che il numero è in costante crescita dal 49,2% del campione del 2004 al 68,1% del 2012. In questi 9 anni tali imprese manifatturiere hanno distrutto valore per 76,8 miliardi, una su due ha perso tutto (o quasi) il patrimonio e viene tenuta in vita soltanto dal debito bancario o perché il valore contabile delle attività supera significativamente quello effettivo di mercato (accounting slack).
Il più delle volte l'imprenditore resta in attesa di una ripresa economica che possa raddrizzare le performance dell'azienda, ma ogni anno che passa senza che questo avvenga rappresenta un costo non indifferente: circa 11 miliardi di euro in media l'anno a livello di sistema, senza contare che sarebbe necessaria una crescita del fatturato compresa fra il 39% e il 53% per ritrovare l'equilibrio.
Di qui la necessità, secondo Ambrosetti, di un processo di ristrutturazione che isoli chirurgicamente il perimetro sano dell'impresa e lo separi dal resto, procedendo poi ad aggregazioni e razionalizzazioni successive. Un processo ovviamente né semplice, né indolore: per l'imprenditore, che potrebbe subire perdite e soprattutto essere costretto a rinunciare alla presa sulla propria azienda; per le banche, che dovrebbero riconoscere l'errore di aver concesso finanziamenti a «manica larga» e rivedere il sistema di garanzie finendo per assimilare la propria attività al «project financing». Occorre però anche uno sforzo del legislatore, che intervenga a creare condizioni favorevoli - in termini di garanzie e di incentivi fiscali - all'ingresso dei nuovi soci nel capitale delle imprese da ristrutturare.
Una soluzione complessa, dunque, ma che vale la pena di valutare, perché il costo del «non fare» è insopportabile per il nostro Paese: ogni anno di ritardo nell'avvio dei processi di ristrutturazione comporta infatti un minor recupero potenziale di 8 miliardi di euro.
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