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Questo articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2014 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 30 aprile 2014 alle ore 11:17.
Di solito, quando un candidato a una elezione vince nel conteggio dei voti, è sicuro di governare. Da deputato, da sindaco, da primo ministro, da capo dello Stato. Non è così in Europa per i cinque candidati che si stanno dando battaglia per ottenere la presidenza della Commissione europea. La scelta finale sul nome di colui o di colei che sostituirà José Manuel Barroso spetta ai governi. Seguiranno le indicazioni degli elettori dopo il voto del 22-25 maggio per il rinnovo del Parlamento europeo? Non è chiaro. Gli equilibri di poteri dipenderanno tra le altre cose dal tasso di partecipazione e dal successo dei partiti più radicali.
Intanto, la campagna elettorale di queste settimane sta rafforzando la legittimità dell'assemblea di Strasburgo. Ancora ieri, questa volta a Bruxelles, quattro candidati su cinque si sono affrontati in un dibattito radiofonico. La sera di lunedì l'incontro era stato televisivo e si era svolto a Maastricht. Sul palco nei due giorni il popolare lussemburghese Jean-Claude Juncker, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, il liberale belga Guy Verhofstadt e l'ecologista tedesca Ska Keller. Mancava all'appuntamento il greco Alexis Tsipras, rappresentante della sinistra di Syriza, oltre che l'ecologista francese José Bové, il secondo membro del ticket ambientalista.
Entrambi i dibattiti sono stati segnati dalla difficoltà per i candidati di fare i conti con un quadro istituzionale nel quale la suddivisione dei poteri tra centro e periferia complica il lavoro della Commissione. Tutti e quattro hanno rispettato le linee-guida ideologiche. Juncker e Schulz hanno difeso da opposti schieramenti la strategia di questi anni: risanamento di bilancio e politiche economiche per la competitività. Nessuno dei due sostiene la mutualizzazione dei debiti pubblici. «Servono precondizioni che non si realizzeranno nei prossimi cinque anni», ha detto Juncker. «Bisogna essere realistici, non c'è una maggioranza a favore», ha aggiunto Schulz.
Nei due dibattiti, i candidati popolare e socialdemocratico sono parsi confederalisti, più che federalisti. Più coraggioso su questo versante è stato il liberale Verhofstadt: «Il mio piano prevede un nuovo decisivo passo verso una maggiore integrazione europea. Solo così potremmo generare quel dividendo di cui abbiamo bisogno per superare la crisi. La nuova integrazione si rivelerebbe un motore per la crescita economica». Secondo l'ex premier belga la disciplina di bilancio è necessaria: «Nuovo debito non è il modo per uscire dalla crisi. Bisogna piuttosto usare l'integrazione europea per rilanciare l'Europa».
Sul fronte della lotta alla disoccupazione, la signora Keller ha parlato della necessità di creare "incentivi" a livello europeo per rilanciare l'occupazione. Tutti i quattro candidati si sono detti convinti che l'Unione debba promuovere la mobilità dei lavoratori. Il candidato ecologista, tuttavia, ha messo l'accento sulla necessità di aprire le frontiere ai rifugiati e alle richieste di asilo, mentre gli altri leader hanno sostenuto la necessità di una immigrazione controllata. Secondo un sondaggio online, la battaglia di lunedì è stata vinta da Verhofstadt che ha avuto il 53,4% dei voti, seguito da Schulz (19,4%), da Keller (18%). Ultimo Juncker, con il 9,2%.
La nomina del nuovo presidente della Commissione europea spetta al Consiglio europeo, secondo il nuovo trattato di Lisbona. Tuttavia il testo precisa che i capi di Stato e di governo dovranno "tenere conto" del risultato delle elezioni per il Parlamento. Non è chiaro se ciò significhi che il Consiglio deve nominare il candidato-vincitore o che possa scegliere anche un terzo pur rispettando il volere degli elettori. Nel presentare il proprio candidato alla presidenza dell'esecutivo comunitario il gruppo socialista ha voluto rafforzare la legittimità del Parlamento, ma ha provocato la reazione indispettita di molti paesi.
I governi dell'Unione non vogliono avere l'ultima parola sul futuro presidente della Commissione nel solo tentativo di imporre la loro volontà. Nell'Europa di oggi la casella dell'esecutivo comunitario deve riflettere equilibri politici e bilanciamenti nazionali, in un mosaico di nomine che prevedono anche la presidenza del Parlamento, la presidenza del Consiglio e l'Alto Rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza. Il nodo non è quindi solo giuridico, è anche politico. Il rischio è uno scontro istituzionale: spetta infatti al Parlamento approvare il nome presentato dai governi.
Quanto peseranno l'annunciato assenteismo degli elettori e il previsto successo dei partiti radicali: indurranno i governi ad ammorbidire la loro posizione o viceversa indeboliranno l'assemblea di Strasburgo? Nel frattempo, la campagna elettorale sta rafforzando la legittimità del Parlamento e in ultima analisi della Commissione. "Juncker for President" si legge sul sito dell'ex premier lussemburghese. "Towards a New Europe", è lo slogan di Schulz che ha un portale in otto lingue. Ambedue stanno viaggiando per l'Europa. Nei prossimi giorni, il primo sarà a Düsseldorf, a Nicosia, a Vienna; il secondo a Belfast, a Varsavia, a Dortmund.
In passato le campagne elettorali per il voto europeo erano nazionali; oggi i candidati sono costretti a giocare fuori casa. Ieri il dibattito in Parlamento era in inglese; l'altro ieri a Maastricht ha provocato 50mila tweets. Non è chiaro, però, se lo sforzo per avvicinare l'assemblea ai cittadini ridurrà l'assenteismo (al 43% nel 2009). Il paradosso è che il rigetto dell'Europa giunge mentre l'assemblea assume un ruolo sempre più importante. I partiti più radicali accusano l'Unione di un deficit di democrazia. Eppure, nell'ultima legislatura il Parlamento ha tenuto 76 sessioni plenarie, adottato 970 atti legislativi, presentato 45mila emendamenti e votato 22mila volte.
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