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Questo articolo è stato pubblicato il 04 maggio 2014 alle ore 08:24.
L'ultima modifica è del 04 maggio 2014 alle ore 14:52.

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È ormai un fatto generalmente riconosciuto che nel Paese che ha inventato l'opera la gestione dei teatri deve cambiare verso. Ma il cambiamento in Italia è un processo più difficile che altrove, una strada lastricata da ostacoli spesso disseminati dai sostenitori dello status quo. Lo deve aver capito bene Alexander Pereira, sovrintendente entrante del Teatro alla Scala, al centro di una forte polemica per aver programmato nelle future stagioni del teatro milanese diversi spettacoli provenienti dal Festival di Salisburgo dove è attualmente il sovrintendente uscente. Le informazioni disponibili dicono che Pereira ha effettivamente impegnato la Scala per la messa in scena di quattro produzioni per un costo complessivo di circa 700mila euro: I Maestri Cantori di Norimberga (regia di Stéphane Herheim, direzione musicale di Daniele Gatti), Don Carlo (edizione in cinque atti, regia di Peter Stein, direzione musicale di Tony Pappano), Lucio Silla (regia di Marshall Pinkowski, direzione musicale di Mark Minkowski) e Falstaff (regia di Damiano Michieletto, direzione musicale di Zubin Metha). Si tratta indubbiamente di spettacoli importanti che, se realizzati in proprio, avrebbero avuto un costo di produzione decisamente superiore a quanto pagato dalla Scala (nell'ordine di diversi milioni di euro).

In qualche caso l'operazione è stata descritta come se la Scala avesse acquistato vecchi allestimenti che altrimenti sarebbero stati rottamati. In realtà, si tratta di spettacoli recenti per i quali la Scala è entrata in accordi di coproduzione successivamente alla messa in scena dello spettacolo. Chiunque capisca qualcosa della gestione di un teatro d'opera sa bene che il vantaggio di una simile scelta è duplice: la divisione del costo di realizzazione e la minimizzazione dei rischi di un progetto nuovo. In questo senso il caso de I Maestri Cantori è esemplare. I piani originari prevedevano una coproduzione tra il Festival di Salisburgo e l'Opéra di Parigi. Successivamente all'andata in scena dello spettacolo (Salisburgo, estate 2013), e solo grazie al suo successo, ai produttori originari si sono aggiunti anche il MET di New York e, appunto, la Scala. Tra l'altro, questo accordo è stato formalmente avallato da Stéphane Lissner nella sua doppia qualità di sovrintendente entrante del teatro parigino e sovrintendente uscente di quello milanese. Né si può dire che gli accordi tra il Festival di Salisburgo e la Scala siano una pratica tutta nuova, dal momento che negli ultimi quattro anni il teatro milanese ha messo in scena quattro spettacoli realizzati da Salisburgo. Inoltre, avere agito con tempestività ha probabilmente assicurato alla Scala che a queste produzioni partecipino gli stessi artisti di livello visti al debutto degli spettacoli. Nel mercato degli interpreti di qualità elevata la programmazione anticipata è l'unico modo per assicurarsi le superstar che altrimenti finiscono presto nei quaderni dei piani di produzione di altri teatri.

"Sostiene Pereira" che la scelta di mettere in scena gli spettacoli salisburghesi è parte di un più ampio progetto che prevede la costruzione per la Scala di un repertorio di qualità che possa essere offerto con più frequenza di quanto non avvenga attualmente, e senza dimenticare le capacità produttive interne. Sarà effettivamente così? Vedremo. Comunque è chiaro che su questo aspetto al Teatro alla Scala è necessario cambiare: lo dicono i numeri di bilancio e quelli della produzione. Da oltre dieci anni il conto economico della Scala si chiude in perdita e a fine anno i soci privati e pubblici sono chiamati al contributo 'straordinario'. Alla fine della stagione 2013-2014 la Scala avrà messo in scena 91 recite d'opera, un numero ben al di sotto dei maggiori teatri europei e internazionali (Per piacere non usiamo l'indicatore delle aperture di sipario!). Il giudizio, ovviamente, non è artistico, come testimoniano alcuni successi recenti e quelli assai probabili degli spettacoli in cartellone. Tuttavia, la realizzazione di spettacoli d'eccellenza è solo uno degli obiettivi di un teatro fortemente sostenuto da risorse pubbliche. L'accessibilità, lo sviluppo del pubblico, l'efficacia e la responsabilità gestionale sono obiettivi altrettanto importanti. In un mondo che cambia velocemente, il futuro presenterà diverse grandi sfide anche ai teatri che in un clima politico ed economico complicato dovranno competere globalmente per le risorse e per il pubblico. In queste sfide il maggiore teatro italiano non può essere lasciato indietro dai concorenti per produttività e innovazione. L'auspicio è che possa essere implementato un nuovo modello gestionale in cui il giusto mix tra innovazione e tradizione, tra teatro di 'stagione' e teatro di 'repertorio', consenta un incremento di produttività. Ai teatri italiani non serve che i problemi continuino a essere solo evidenziati, servono soluzioni effettive. E in questo senso l'autonomia della Scala potrebbe essere uno strumento utile per attivare le soluzioni.

Nel 'caso Pereira' l'attenzione si è concentrata sul fenomeno della leadership (del protagonista) e poco sull'efficacia di una nuova 'meccanica manageriale' che speriamo sottintenda alle scelte effettuate. Si tratta di un caso comune nelle organizzazioni artistiche spesso attraversate da tensioni tra il desiderio di una leadership artistica e le istanze della responsabilità gestionale. Ma in questo caso più probabilmente si tratta di una dicotomia tra chi fornisce la visione e chi controlla la situazione; una cosa che nel caso specifico ha a che vedere con la bureaucratic disease che pervade il nostro Paese, teatri compresi. D'altronde, il teatro è lo specchio della società! Speriamo che cambino entrambi.

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