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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2014 alle ore 08:07.
L'ultima modifica è del 12 giugno 2014 alle ore 15:42.

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(Ansa)(Ansa)

Non partiamo con i favori del pronostico. Ma quasi mai siamo partiti per un campionato del mondo da favoriti. E comunque non quando abbiamo poi trionfato, nel 1982 in Spagna come nel 2006 in Germania. Una cosa è certa però: il calcio italiano è stato sempre in grado di competere per i primi posti. Siamo andati male solo quando non si era compiuto il ricambio generazionale, mentre nella rosa allenata da Cesare Prandelli questo passaggio di testimone è stato consumato, pur senza rinunciare all'indispensabile esperienza di alcuni senatori.

Abbiamo una squadra con una buona dose di talento, e questo è un aspetto che conterà. Per quanto si tratti di un talento italiano, latino.
I tedeschi hanno una forma di talento più costante. Se valgono sette sono capaci di rendere sette quando è il momento. Noi italiani pur avendo in dote un talento da sette sappiamo rendere otto, nove, oppure cinque, a seconda delle circostanze. Situazioni o sensazioni particolari possono esaltarci o deprimerci. A cominciare dalla paura di non superare il girone.
In Spagna la provammo sulla nostra pelle, con quella qualificazione acciuffata per differenza reti sul Camerun. La pressione era tanta – e ce ne sarà altrettanta sui ragazzi in Brasile nelle prossime settimane – perché si rischiava di dover tornare a casa scortati dai cellulari della Polizia. Per cui è quello lo scoglio più alto. Conquistato il pass per gli ottavi e le gare a eliminazione diretta, ci si libera da ansie e timori e allora possiamo battere qualunque avversario, inclusi quelli all'apparenza insormontabili.

Sì, penso, al Brasile che ci trovammo di fronte in Spagna il 5 luglio '82, nella partita decisiva. Eravamo con le spalle al muro, un solo risultato a disposizione e contro una marea di campioni, da Zico a Socrates, da Junior a Cerezo. Siamo scesi in campo con la convinzione di poter vincere, con il morale in crescita per aver battuto l'Argentina di Maradona nella gara precedente, ma quello che è accaduto sul prato del Sarrià di Barcellona ha qualcosa di incredibile: l'altalena di emozioni, i cinque gol, quel tiro di Falcao deviato impercettibilmente da Bergomi, giusto dieci centimetri che me l'hanno reso imparabile, poi la tripletta di Paolo Rossi e la mia parata decisiva con il pallone inchiodato sulla linea di porta.

Con i miei quarant'anni sono stato il più vecchio calciatore ad aver alzato la Coppa del Mondo ed è stata una rivincita personale, perché se avessi giocato meglio, magari, avremmo potuto raggiungere la finale già in Argentina nel '78. Ma la vittoria in Spagna resterà ineguagliabile, per lo spettacolo che seppe offrire quella squadra, per la velocità, le tante reti segnate e il coraggio. Nel 2006, in fondo, si vinse con altri presupposti. Ma il segreto che sta dietro questi successi, e nel mio caso penso a Enzo Bearzot, è che il gruppo sia guidato da un "generale" capace di infondere fiducia, di trascinare tutti con idee chiare e con educazione, un generale che sia disposto a difendere i propri uomini porgendo il petto alle "fucilate", e che sappia far crescere la voglia di vincere e la convinzione di poterci riuscire stando uniti. Gol e parate arrivano quasi di conseguenza.

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