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Questo articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2014 alle ore 08:07.
L'ultima modifica è del 20 giugno 2014 alle ore 10:41.

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Tornare in Italia, per controllare meglio il processo produttivo che, quando le fabbriche si trovano a migliaia di chilometri, rischia di diventare sfilacciato e slabbrato.

Lasciare i Paesi a basso costo del lavoro, perché il premium price espresso dal Made in Italy è non soltanto garantito, ma perfino sollecitato, dagli acquirenti. Il gruppo di ricerca sul back-reshoring, formato dagli atenei dell'Aquila, di Catania, di Udine, di Bologna e di Reggio Emilia, prova a monitorare non le (molte) intenzioni di ri-localizzazione di pezzi dell'apparato industriale italiano, ma le (ancora poche, ma in crescita) operazioni effettuate dalle nostre imprese.
Negli ultimi quindici anni, per l'Italia, si contano settantanove operazioni di back-reshoring: ventotto dalla Cina, dodici da Paesi asiatici (non la Cina), ventidue dall'Europa dell'Est e dalla Russia, tredici dal resto d'Europa, una dal Sud America, una dal Nord Africa e due dal Nord America. Settantanove su trecentosettantasei casi censiti da questo gruppo di ricerca, intenzionato a cogliere il profilo di un fenomeno internazionale e di sviluppare un dibattito intorno alle policy pubbliche.
Per l'Italia, vanno aggiunti dodici casi di near-reshoring: la scelta di mediazione di abbandonare sistemi industriali vantaggiosi dal punto di vista dei costi ma troppo lontani, ricollocandosi dunque in Paesi più vicini al proprio. Di questi dodici, dieci sono consistiti nell'uscita di Paesi asiatici. «In tutto - sintetizza Luciano Fratocchi, professore associato di ingegneria economico gestionale all'Università dell'Aquila - si tratta di novantun casi. Non è una pandemia. Ma si tratta di un fenomeno fisiologico che inizia a imporsi anche nel nostro Paese». Un fenomeno non episodico, ben illustrato da Fratocchi alla ventiquattresima Giornata Franco Momigliano, organizzata dal Gruppo economisti di impresa.

Nel 2009 i casi - sia di back che di near-reshoring - erano ammontati a diciannove. La recessione ha come congelato questo processo. Che, però, è rapidamente ripartito: nel 2012 se ne sono contati undici, nel 2013 dodici e in questi primi mesi dell'anno quattro. «L'elemento interessante - dice Fratocchi - è che si tratta di una realtà internazionale, che non ha tanto ragione nelle specificità dei singoli Paesi quanto nell'evoluzione del capitalismo globale». Evoluzione rappresentata dalle motivazioni che hanno indotto gli imprenditori delle economie mature - Italia inclusa - a chiudere stabilimenti "là" e ad aprirne di nuovi "qua".
Fra le ragioni addotte, un imprenditore su quattro indica i costi della logistica. Costi della logistica che, spesso, superano i vantaggi comparati del costo del lavoro. Non solo: la dinamica di quest'ultimo è tutt'altra che favorevole, dato che - uno degli imprenditori su cinque - sottolinea, fra le ragioni del rientro a casa, anche quella della riduzione del gap dei salari, tendenza sempre più frequente, in particolare in Asia. C'è, poi, una ragione che nulla c'entra con lo sviluppo endogeno degli Stati che ospitano le fabbriche della delocalizzazione, avvenuta negli ultimi venticinque anni. Questa ragione riguarda la nuova fisionomia del capitalismo globalizzato: la manifattura, infatti, incorpora una quota di servizi sempre maggiore. Non a caso, il 17,8% indica nello sviluppo del servizio al cliente la ragione per cui è preferibile reinternalizzare le funzioni - o i pezzi di ciclo produttivo - portate negli ultimi anni fuori, lontano migliaia di chilometri dal quartier generale. E, non a caso, un imprenditore su dieci segnala la motivazione nella rimodulazione dell'architettura dell'impresa.

Soltanto il 7,7% identifica negli incentivi ottenuti in madrepatria la ragione del rientro. «Sì, è vero - osserva Fratocchi - si tratta di una percentuale minoritaria. Ma, di certo, questo fenomeno va inquadrato nell'evoluzione più complessiva della manifattura internazionale. E va sostenuto, a livello nazionale, con policy organiche e non estemporanee. Basta vedere che cosa ha intenzione di fare David Cameron, primo ministro di una Gran Bretagna che di certo non va annoverata fra le economie dirigiste. Cameron, colta la novità, pensa a una agenzia unica, in grado di aiutare le multinazionali a riportare a Manchester e a Leeds, a Liverpool e a Londra parti del sistema industriale che oggi si trovano in Cina o in Malesia, in Messico o in Lituania. Se lo fanno loro, perché non possiamo farlo noi italiani, che peraltro abbiamo una ben più solida tradizione manifatturiera?».

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