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Questo articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2014 alle ore 08:05.
L'ultima modifica è del 20 giugno 2014 alle ore 10:48.

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Quello che segue è uno stralcio dell'ultimo libro di Filippo Astone, La riscossa, un viaggio nell'industria italiana e nei suoi lati nascosti. L'autore racconta che cosa va a gonfie vele in Italia (le migliori fabbriche) e indica che cosa si dovrebbe fare davvero per ottenere una ripresa economica, sociale e culturale.
La recessione economica, lo scoppio della bolla finanziaria e la fine di tante mode hanno finalmente riportato un po' di attenzione politica in più sull'industria.

Stando ai numeri, sul pil italiano, pari nel 2013 a 1.402 miliardi, la manifattura genera direttamente 219 miliardi. Ma, indirettamente, ne genera assai di più. Secondo Fulvio Coltorti, economista per quasi quarant'anni capo dell'Ufficio Studi di Mediobanca, almeno il 70% del pil resta fortemente influenzato dall'industria. Peccato però che negli anni della crisi economica (2008-2013) il peso del manifatturiero sul pil sia drasticamente calato, passando dal 21% al 16%. Ancora oggi, l'industria ciò sia possibile, i laboratori di ricerca e la produzione devono essere vicini, contigui, e magari legati a centri di elaborazione intellettuale come le università. È solo così che si produce quella "tecnoscienza" che secondo Alberto Quadrio Curzio (l'intervista in cui lo spiega è nei capitoli successivi) rende possibile la tenuta dell'economia. Perché la "tecnoscienza" sia efficace, occorre che il nucleo produzione di qualità resti qui, in Italia. Anche se le tecnologie di comunicazione accorciano le distanze, va mantenuta la sequenza ricerca e sviluppo-produzione-generazione di competenze. Certo, è giusto creare stabilimenti produttivi vicini ai mercati da servire, tanto che il modello vincente del Quarto Capitalismo vede in Italia headquarter (per ricerca e la parte di produzione necessaria a testare i prodotti e a servire il mercato italiano), mentre gli stabilimenti dislocati in giro per il mondo riforniscono i vari Paesi, e a volte rappresentano, nel loro complesso, gran parte della produzione dell'impresa. Ma comunque il cervello, il cuore, il portafoglio e una parte del corpus devono restare qui in Italia. E la delocalizzazione? Tra il 1990 e il 2010 è stato un fenomeno di massa. Intere regioni della Romania sono state praticamente colonizzate da imprenditori del Nord-Est ansiosi di ridurre il costo del lavoro. Adesso, quel trend è in via di esaurimento. Si continua a esportare e a internazionalizzare, ma si delocalizza sempre meno. Perché è finita la moda, e il guadagno fatto sul basso costo del lavoro è sempre più effimero. Guadagna chi punta sull'innovazione e la qualità, non chi sfrutta i bassi salari.

Che comunque sono sempre meno bassi. Perché la corsa al ribasso globale del lavoro deve trovare necessariamente un limite. E perché anche rumeni e cinesi si stanno avviando verso la sindacalizzazione e la presa di coscienza dei loro diritti. Soprattutto, l'evoluzione tecnologica sta trasformando le fabbriche in luoghi a crescente densità tecnologica e a decrescente densità di lavoro. In prospettiva, la variabile costo del lavoro avrà un peso percentuale sempre più basso. L'automazione, insomma, abbatte il costo del lavoro. Un recente studio della McKinsey ha calcolato che, entro dieci anni, fra il 15 e il 25% dei posti di lavoro operai saranno occupati da robot. Anche per la fabbricazione di prodotti apparentemente semplici come scope e strofinacci. A valore, per merito soprattutto di queste aziende. Secondo stime del Centro Studi di Confindustria, un incremento di un punto percentuale del tasso di crescita dell'export di merci è associato a un aumento di 0,24 punti percentuali del tasso di crescita del pil italiano. Se nei prossimi cinque anni l'export italiano replicasse la performance di quello tedesco nel decennio pre-crisi, aumentando la sua quota sul pil di 1,6 punti percentuali all'anno, si avrebbe un incremento aggiuntivo del pil dello 0,7% annuo.

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