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Questo articolo è stato pubblicato il 24 giugno 2014 alle ore 06:40.

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È forse presto per dare un giudizio distaccato sul ruolo esercitato da Enrico Cuccia nel capitalismo italiano. Così, a quattordici anni esatti dalla sua scomparsa, la presentazione del libro «Promemoria di un banchiere d'affari» – una raccolta di scritti curata da Sandro Gerbi e Giandomenico Piluso – diventa l'occasione per svelare qualche spaccato inedito di un personaggio sui generis che aveva fatto del culto della riservatezza una religione. Lo racconta a modo suo Renzo Rosso, patron della Diesel, che vent'anni fa fu portato dall'allora ad Vincenzo Maranghi a conoscere il presidente onorario di Mediobanca. A pranzo, nella saletta di via Filodrammatici, si parlava di tutto – racconta l'imprenditore – con un Cuccia curioso che voleva sapere persino dei giovani che andavano in snow-board e ascoltavano la musica rap e non si sottraeva al rito della foto-ricordo. E un Cuccia che poi parlava del «pulcino che stava crescendo bene», riferendosi ad Alberto Nagel, che sarebbe diventato ad di Mediobanca dopo Maranghi.
Ma lo racconta anche in veste più istituzionale Piero Barucci, che ricorda come Cuccia non rifiutasse mai la chiamata del Governo, non per confezionare "operazioni di sistema", ma per dare un contributo da esperto. «Quello che fece Enrico Cuccia per i Governi Amato e Ciampi è inenarrabile e fu a costo zero per lo Stato», ha sottolineato Barucci che da ministro del Tesoro – secondo chi con il banchiere ha lavorato fianco a fianco – si sentiva con Cuccia almeno una volta alla settimana. «Un personaggio eclettico», lo definisce Fulvio Coltorti, direttore emerito dell'ufficio studi di Mediobanca, e di profilo internazionale ante litteram. Cuccia a occuparsi di Mediobanca arrivò nel '46, a 39 anni ancora non compiuti. Laureato in giurisprudenza – con una tesi in diritto commerciale sulla Borsa e la speculazione – aveva esordito come cronista al Messaggero, fece apprendistato a Parigi alla banca Sudameris, poi fu assunto alla Banca d'Italia alla filiale londinese, entrò all'Iri, fu mandato in Africa orientale come delegato del ministero Scambi e valute (mettendosi in contrasto con il vicerè Rodolfo Graziani che sollecitò il suo trasferimento perchè troppo intransigente), e passò infine al settore estero della Comit, dove rimase fino alla fondazione di Mediobanca. Parlava inglese, francese e spagnolo e grazie alle relazioni cosmopolite coltivate nelle prime esperienze lavorative fu in grado di dare vita al modello di banca mista, che prediligeva, con l'apertura internazionale consentita dalle alleanze messe in campo con i colossi finanziari dell'epoca. Un metodo, quello delle alleanze che "pesano", che trovò applicazione anche nella ragnatela di partecipazioni-"ago della bilancia" che seppe tessere nelle aziende italiane. Un sistema che ha fatto il suo tempo, ma il lascito "morale" è quello che l'ad Alberto Nagel vuole preservare. «Dai suoi scritti traspaiono quelle che devono essere le qualità del banchiere d'affari – ha sottolineato Nagel – e cioè competenza tecnica, probità e indipendenza». Concetti che probabilmente non sono più di moda nella finanza aggressiva, ma che forse meriterebbero di essere recuperati. «Dalla fine degli anni Novanta le banche d'affari sono diventate macchine da trading e l'attività verso la clientela ha finito per rappresentare solo una parte minimale – osserva l'ad di Piazzetta Cuccia – Ma quelle qualità ("alla Cuccia") sono di grande attualità: servirebbe fare il passo del gambero e tornare alla specializzazione».
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