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Cultura-Domenica Musica

Il trionfo italiano di Gonzalo Rubalcaba

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 maggio 2010 alle ore 18:22.
L'ultima modifica è del 15 maggio 2010 alle ore 15:53.

Sei anni or sono, a fine maggio, il club Blue Note di Milano ospitò per alcune sere il pianista cubano Gonzalo Rubalcaba in veste di solista. Fu una rivelazione, almeno dalle nostre parti e per gli ascoltatori più attenti, che si ripetè cinque mesi dopo nei concerti di Musica per Roma. Rubalcaba, che oggi ha 47 anni, non era di certo uno sconosciuto. Figlio d'arte, maturato come pianista e compositore attraverso severi studi classici e poi jazzista per scelta, aveva ottenuto successi in tutto il mondo e vinto un premio Grammy dopo che il contrabbassista Charlie Haden, in tournée a Cuba nel 1986 con la sua Liberation Music Orchestra, lo aveva ascoltato per caso e ne era rimasto entusiasta. Quattro anni più tardi lo portò con sé in Svizzera al Festival di Montreux, in trio con Paul Motian alla batteria, proiettandolo nell'élite internazionale dei musicisti di jazz.



Ciò malgrado numerosi critici (anche e soprattutto italiani, si direbbe) non accreditarono mai Rubalcaba di quella marcia in più che fa di un pianista un grande pianista. Ma il motivo, nascosto e inconsapevole, c'era. Rubalcaba, nei concerti e nei dischi, si esibiva sempre in piccoli gruppi, dal duo al sestetto, rinunciando sempre – è naturale che sia così – a una parte della propria personalità per concorrere a formare quella del complesso. Qualcosa, quindi, rimaneva in ombra, e non erano sufficienti un paio di cd solitari a fare piena luce sulla sua vera statura. Nel 2004, a Milano e a Roma, alcuni esperti hanno capito, e di conseguenza hanno cercato di rivedere la sua biografia artistica e di riascoltare con la massima attenzione i suoi cd, però a livello di pubblico non è bastato. Adesso Rubalcaba si è presentato da solo al quindicesimo Festival internazionale del jazz di Vicenza (tuttora in corso).

Fra grandi nomi come Joshua Redman, Brad Mehldau, McCoy Tyner e il batterista ottantacinquenne Roy Haynes poteva perfino passare inosservato. Qualcuno, fingendosi poco al corrente delle sue vicende, gli ha chiesto la ragione della sua solitudine. «E' una decisione che ho preso qualche tempo fa» ha risposto «e ormai le eccezioni a questa mia regola sono sempre più rare. Mi sono accorto che suonando da soli si è completamente liberi; in due si è meno liberi, figuriamoci in un gruppo. Io lo so bene, e so pure che l'improvvisazione in solo implica maggiori rischi, ma vale la pena di correrli». Il suo concerto ha avuto luogo nell'incanto del Teatro Olimpico, naturalmente senza amplificazione. La bellezza della sala ha sollecitato Rubalcaba a dare il meglio, lo ha detto lui stesso. Ha iniziato in modo quasi sommesso, prendendo quota nota dopo nota.

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Ha messo in evidenza tecnica, tocco, tatto (le famose tre t del pianista russo Nikita Magaloff), un fraseggio nitido e superbo, velocissimo dove occorreva, e una perfetta indipendenza delle mani. Seguendo una discutibile abitudine, molti gli hanno cercato nel jazz un pianista progenitore. Ma al massimo ce n'è uno solo, per virtuosismo e geniale inventività, ed è il sommo Art Tatum. Verso la fine del concerto è affiorata l'anima neolatina di Rubalcaba in un tema che gli è caro, Besame Mucho, e nelle prodigiose variazioni con cui ha abbellito il poco noto Peanut Vendor. E' stato un trionfo, e questa volta lo ricorderanno tutti.

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