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Cultura-Domenica Arte

Happy gays

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2010 alle ore 17:55.

Secondo un sondaggio condotto due anni fa dalla Gay and Lesbian Alliance Against Defamation, per il 79 per cento degli americani conoscere direttamente una persona omosessuale ha contribuito a migliorare la loro percezione della comunità gay; per il 34 per cento degli interpellati vedere in televisione omosessuali sarebbe stato invece un elemento fondamentale.

Certo è facile parlarne oggi, che la presenza di personaggi di orientamento "Lgbt" - cioè lesbico-gay-bisessuale-transgender - è ormai diffusa nella televisione americana e più in generale anglofona (si pensi alle serie inglesi Shameless e Sugar Rush, o alla canadese Degrassi): quest'anno se ne contano circa seicento ma in tutto il decennio 1960-1970 ce ne fu uno solo, Daniel Sereno in Roads to Freedom, prodotto dalla Bbc. «In termini di linee narrative, nelle fiction americane il personaggio gay è ormai indistinguibile dal resto del cast - afferma Matteo B. Bianchi, romanziere e autore di Victor Victoria per La7 -. Negli Stati Uniti sono anzi arrivati già alla parodia dei meccanismi della coppia omosessuale. Lo dimostra uno dei maggiori successi della stagione, trasmesso peraltro da un canale molto convenzionale come Abc: la serie Modern family, che parla di tre nuclei familiari, uno dei quali è composto da due uomini che hanno adottato una bambina».

Non è sempre stato così, però: volgendo lo sguardo sugli ultimi quarant'anni di televisione si nota come lo sdoganamento dei personaggi omosessuali sia dovuto passare attraverso tutti i cliché imposti dalle reti che, pur sondando il terreno dei nuovi costumi sociali, cavalcavano contemporaneamente l'onda del sensazionalismo: ecco quindi la checca isterica, la lesbica borchiata, la trans ridicola, e più in generale la promiscuità sessuale, l'Aids, la droga e la miserevole condizione di essere emarginati dalle proprie famiglie e oggetto di violenza da parte di estranei. Come dire: attenti ai vostri comportamenti, perché le conseguenze non saranno belle.

A parte il primo bacio lesbico scambiato nel 1991 in L.A. Law tra due avvocate non destinate a morire, essere licenziate o uccidere qualcuno, l'inserimento di modelli positivi nell'immaginario collettivo è cominciato solo nella seconda metà degli anni Novanta, quando nei prodotti dei canali mainstream di prima serata sono esplosi i casi di Ellen Degeneres, che fece outing sulla sua sitcom Ellen, e del primo bacio tra due giovani gay visto nella serie per teenager Dawson's Creek. Nel 2006 è arrivata infine la "supercoppia" Luke e Noah in As the world turns (Così gira il mondo), la prima autentica storia d'amore tra maschi in una soap opera, sviluppata in tutte le sue sfumature sulla lunghezza di centinaia di puntate e pietra miliare dell'emancipazione della figura dell'omosessuale dagli schematismi pietistici precedenti.

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Tags Correlati: American Broadcasting Companies | Arci Gay | Arte | Bbc | Ellen Degeneres | Giovanni Robbiano | Italia | Ivan Cotroneo | La Sette | Luca Visconti | Matteo B. Bianchi | Organizzazione Mondiale della Sanità | Rai Uno | Sugar Rush | The L | Vincenzo Branà

 

E visto che sitcom, telefilm e soap opera sono i generi destinati ai campioni commerciali più ambiti (casalinghe che gestiscono il budget familiare e i loro figli spendaccioni), non si può fare a meno di chiedersi se è venuto prima l'uovo o la gallina: è lo zeitgeist che dà nuove idee al marketing o il contrario? «Un programma tv nasce sempre tenendo conto del suo target commerciale; le indicazioni delle reti possono essere molto precise in questo senso, anche perché gli sponsor hanno diritto a staccare la spina se l'Auditel non conferma le aspettative di share prospettate. È così che spariscono fiction e talk show dai palinsesti», spiega Giovanni Robbiano, sceneggiatore fra gli altri anche per la Rai. Che precisa: «Il pubblico gay è considerato appetibile perché ottimo consumatore di beni di qualità, e quindi viene corteggiato».

Una ventina di anni fa un contenuto apertamente gay poteva far perdere preziosa pubblicità a un programma o addirittura a una rete: quando Abc mandò in onda una puntata di Thirtysomething in cui si vedevano due uomini in un letto, la serie si vide istantaneamente ritirare spot per un milione di dollari. Oggi si fa invece molta attenzione a captare attraverso temi gay friendly il potere d'acquisto del "pink money" (e del "blue money", nel caso delle lesbiche). Un giro d'affari stimato tra i 500 e i 600 miliardi di dollari a livello internazionale anche se, come avverte Luca Visconti, direttore del master in marketing e comunicazione alla Bocconi, «si tratta di proiezioni molto aleatorie per tre motivi. Primo, l'incidenza della popolazione "Lgbt" è ancora difficile da stabilire: per il rapporto Kinsey si parlerebbe del 10 per cento del totale, per l'Oms del 6,5 per cento, mentre i sondaggi più conservativi stimano il 5 per cento. Secondo, sappiamo che il reddito individuale di un maschio gay americano è inferiore a quello di un maschio etero a causa della discriminazione sul lavoro; ma il reddito di una coppia di gay è comunque superiore a quello di una coppia eterosessuale, perché la donna guadagna ancora meno del gay. Terzo, bisognerebbe essere in grado di stabilire quali acquisti siano determinati dall'orientamento sessuale di chi li fa. Si può affermare con certezza invece che in settori come il fitness e la cosmesi maschile il gay ha fatto da trendsetter, contagiando, spesso attraverso la mediazione delle donne, anche l'etero».

In Italia però, secondo Vincenzo Branà, responsabile culturale di Arcigay, che il concetto di "pink money" non abbia ancora fatto breccia risulta evidente da come vengono presentati in tv i personaggi Lgbt, veri o fittizi che siano. «Mi pare ci sia un solo esempio da citare ed è quello della serie Tutti pazzi per amore, forse non a caso scritta da Ivan Cotroneo per Rai Uno, in cui vediamo un padre fare outing al figlio e un ragazzo sieropositivo affrontare con grande responsabilità un rapporto di coppia. Per il resto riscontro ancora un triste imbarazzo, come nel caso di un ospite di un quiz, che ho visto indicare come un amico quello che era evidentemente il suo compagno. Nei reality e nei talk show c'è troppo macchiettismo, se non una profonda mancanza di rispetto per l'identità delle persone. Mi vengono in mente tutte le trans intervistate dopo il caso Marrazzo nei programmi-contenitore per casalinghe, apostrofate come uomini e come puttane allo stesso tempo. Parlarne tanto non vuol dire parlarne bene».

Non che l'invisibilità sia particolarmente auspicabile: «Le lesbiche in tv quasi non esistono - spiega Elisa Manici, referente culturale Arcilesbica -. O sono donne bisessuali o sono comunque ritratte in modo da solleticare il pubblico maschile, rispondendo a ovvie esigenze di marketing. Anche The L word, che doveva essere una serie rivoluzionaria, si è rivelata una carrellata di superbonazze che amoreggiano. Tanto che il dottor House, nella serie omonima, dichiara che è il suo show preferito e che lo guarda a volume spento… L'invisibilità sui media riflette però quella nel quotidiano - continua Manici -. Due ragazze che camminano mano nella mano non si notano: da un lato le donne sono tradizionalmente affettuose, dall'altro non si vuole prendere in considerazione l'idea che si sottraggano alle logiche eterosessiste». Forse perché, per usare le parole di Janne Matlary, esperta di diritti civili, «la discriminazione non avviene solo quando individui uguali vengono trattati in modo diverso, ma anche quando individui diversi vengono trattati in modo uguale».

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