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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2010 alle ore 17:54.

L'incontro tra due fratelli dopo alcuni anni di lontananza, in una Melbourne infuocata e preda della siccità. Ancora è buio. Poche parole e un riflettere tumultuoso dipanano i fili di un legame di sangue. «Il fiume Yarra» è una short story scritta dal vietnamita Nam Le. Per libera associazione abbiamo affiancato alcune immagini tratte dal video «Migration» dell'artista canadese Doug Aitken

Nam Le, 32 anni, è nato in vietnam e cresciuto in australia. finalista al premio Vallombrosa-Gregor Von Rezzori, svoltosi nei giorni scorsi, il suo primo libro, «I fuggitivi» (Guanda), è stato tradotto in tredici lingue e ha vinto diversi premi, tra cui il Dylan Thomas prize. In queste pagine pubblichiamo un estratto dal racconto «I fiume yarra», inedito in Italia.

Ore prima dell'alba il mio corpo è già intriso di sudore, come in un'anticipazione del caldo vero. La siccità tormenta Melbourne. La città è una pianura di polvere e fuoco. Mi sveglio da un sogno. La partita del sabato pomeriggio da studente, i parastinchi e gli sfregamenti ai genitali, là dove le lenzuola si sono attorcigliate; rumore, una collisione a fondo campo, lontana come in un sogno più profondo. I contenitori Tupperware con gli spicchi di arancia gelata a metà partita. Poi uno spostamento improvviso e una carica, sono attorniato da giocatori, nelle orecchie la respirazione che accelera; scatto spaventato di qui e di là, e qui la palla è lanciata là e là, nel momento stesso in cui la raggiungo, scalciata via da qualcun altro. Il sole in faccia e poi il buio. Mio fratello, sangue del mio sangue, confessore e protettore, arrivato la notte scorsa, dorme al piano di sotto e - come sempre quando arriva - mi ritrovo una mano sul cuore e la mente apertissima e in tumulto.

Mi alzo e mi lavo la faccia. Scende acqua calda dal rubinetto dell'acqua fredda e ha un odore di spazzatura. Al piano inferiore, una proprietà riflessiva mi spinge a guardare la forma addormentata sul divano, e guardo. Mio fratello Thuan non offre alcun indizio di dove sia stato. Come sempre è disteso sulla schiena. La bocca è aperta, le palpebre fremono violentemente insieme ai pensieri e nonostante il lenzuolo intravedo le pesanti membra, distese e parallele, come un cadavere esposto in pubblico. Ha un corpo possente.

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Preparo il caffè con la caffettiera a stantuffo - senza preoccuparmi di non fare rumore - ed esco sulla veranda posteriore. Mi siedo e guardo l'orizzonte circondato dal canto delle cicale. Qualcosa non va. Perché sarebbe venuto altrimenti? Mi chiedo dove sia stato, ma poi mi dico, che importanza ha? È stato via, punto e basta. Penso alla sua ultima visita, tre anni fa, e alla visita di Baby pochi mesi dopo, a come fosse tranquilla e incerta, diversa dalla ragazza di tempi ben più litigiosi. Prima di andarsene esitò, poi chiese trenta dollari, glieli diedi e non la vidi più.

Nell'oscurità altre facce di quel passato condiviso mi tornano alla mente con sbalorditiva chiarezza. Perfino più vicino, più intenso del buio, è il calore. Si prepara un'altra giornata torrida. Da qualche parte là fuori una foresta è in fiamme, e una famiglia, accovacciata in una vasca da bagno sotto asciugamani bagnati, attende, mentre polmoni vigorosi si riempiono di vapore, fango e fuliggine. Verifico la temperatura del caffè. Come spesso mi accade a quest'ora del mattino avverto uno strano assonnato abbattimento, che non assomiglia a tristezza. Non assomiglia a niente. Tra gli alberi, in basso, il fiume scorre lambendo la città e risale lentamente lungo la riva in questa direzione e le tenebre si ricompongono nel nuovo mattino nel modo in cui ho visto fare e di cui mi sono nutrito per anni.

È lì adesso, sento la sua presenza, ma non dico niente. Passano i minuti. Una seconda linea luminosa sorge accanto al fiume: la pista ciclabile.
«Hai ancora la mia vecchia maglietta», dice Thuan. Perfino la sua voce sembra umida. Esce a piedi nudi e torso nudo, aggirando il sacco da boxe senza nemmeno fingere un attacco.
«Dormito bene?».
«Se affogare nel sudore tu lo chiami dormire».
Si sente loquace.
«Sei arrivato tardi» dico. «Lì c'è un ventilatore».
Si muove furtivo ispezionando la veranda. Dall'ultima volta che è stato qui ho adattato una piccola area per l'allenamento, coperta da un'incerata. Ho dipinto il cemento con un colore luminoso, ormai sbiadito. Si siede sulla panca. Dice sottovoce: «Va bene», come scetticamente, facendo una concessione. Scuote la testa. «Questa maledetta siccità», dice.

«Lo so, devo andare giù» dico, facendo un cenno in direzione del fiume. «A portare su l'acqua per il giardino e tutto il resto».
«Perché?».
«Sai…», mi mette in imbarazzo. «L'orto e… ».
«Voglio dire, perché non innaffi con la canna?»
Lo guardo. Dov'è stato se non sa delle restrizioni sull'uso dell'acqua? Poi capisco quello che vuole dire: a chi importa delle restrizioni dell'acqua? Che cosa possono farti?
La timidezza si impadronisce di me, poi dico: «Ho sognato le partite del sabato».
Con mia sorpresa incomincia a ridere. Solleva il viso, già imperlato dal sudore, e spalanca la bocca. È cambiato dall'ultima volta che l'ho visto.
«Ti ricordi quando hai rotto la gamba a quel tizio? E volevano darci la partita persa a tavolino?».

Gli dico che ricordo, anche se in quel ricordo è lui e non io, a spaccare la gamba a quel tizio. Avevamo giocato alcuni anni nella stessa squadra. Mi sembra, in un attimo di disorientamento, di ritrovarmi nel sogno del mattino: il cielo instabile, il sole un pallido tuorlo d'uovo buttato là sopra. Poi riemerge la memoria precisa di quel momento, riemergono le facce: ricordo il volto del ragazzo ferito, con quell'espressione come di delizia dal respiro corto, come se qualcuno avesse appena fatto una battuta di pessimo gusto; e lo strano sorriso affettato sulle labbra di nostro padre quando entrò in campo a prenderci, sbaragliando i tecnicismi dell'allenatore, il crescente rancore degli opposti genitori.

«L'espressione sul suo viso… », aggiungo sogghignando.
Aspetto che sia Thuan a continuare il racconto, ma a quanto pare ha terminato. Continua a ridacchiare ma a denti stretti e questo mi rende diffidente. Mi sento messo alla prova.
«Caffè?».
Riflette un attimo e infine, come se fosse stato spinto, cade all'indietro sulla panca, torcendo all'ultimo secondo il busto sotto al bilanciere. Verifico in fretta il peso - ventuno chili in una barra da quindici - non male, ma nemmeno il mio record personale.
«Vuoi provare?», gli chiedo, rendendo evidente dal mio tono di voce che sto scherzando.

Libera con uno strattone la barra dal sostegno e correttamente, senza fatica, completa tre distensioni. Terminato l'esercizio resta sulla schiena, le braccia a penzoloni sui due lati della panca come se parodiasse uno di quei canoisti della domenica sul fiume sottostante. Assecondo i suoi respiri lunghi. Non si muove, non parla e, nella penombra, mi chiedo se non si sia riaddormentato. Intorno a noi le cicale continuano frinire, il timbro incerto, appesantito dall'interminabile calore della notte. Mi metto comodo anch'io. Un forte odore di salvia dal giardino. Alberi e cespugli scivolano dentro i loro rispettivi contorni. Comprare questo posto con la mia parte di eredità è stata la cosa più intelligente che abbia mai fatto, nonostante il suo stato fatiscente, le fondamenta che cedevano, gli stabilimenti e le fabbriche ovunque. Non potevo sapere allora che dieci anni dopo, a trentatré anni, sarei venuto a vivere qui da solo, senza lavoro. Non potevo immaginare che avrei finito per avvolgere una ad una le mie giornate in quell'umore mattutino, esercitato su quel fiume scuro là sotto, sentendo che quello stato d'animo, benché ineffabile, fosse più di sconfitta che di dolore, e che quella che chiamo la mia vita dipendesse da questo. So solo una cosa: che quando mio fratello arriva scompagina tale umore. Per questo sono contento, oltre al fatto che siamo legati l'uno all'altro in tutti i modi che importano.

Parla, come fosse stato invocato. «Mi toglierò dai piedi in un paio di giorni», dice.
Poi si alza e penetra nel bush scuro, presumibilmente per pisciare.
L'eccellenza fisica è sempre stata importante tra di noi. Ricordo di essermi forzato a fare sport da ragazzo perché lo faceva mio fratello. Lo seguivo ciecamente a scuola e in qualunque tipo di gioco di strada. A differenza di me non leggeva né ascoltava musica, per lui il miglioramento fisico era una ragione di vita e una ricompensa. Ricordo di essere stato testimone - avevo undici anni e lui tredici - di una gara di flessioni tra mio fratello e quattro ragazzi assistiti da un'organizzazione non governativa. Più tardi, naturalmente, i quattro sarebbero stati catalogati dai media come appartenenti a una nota "banda asiatica", ma non facevano parte di nessuna banda, non erano nemmeno amici, né tanto meno famosi. In realtà erano fratelli.

E già allora, nella stanza dei bambini, in occasione di una festa a casa di certi amici di famiglia a St Albans, accovacciati attorno alla figura distesa di mio fratello, più giovane di tutti loro tranne uno, avevano già imparato a rimanere uniti. La gara si trascinava senza un evidente vincitore. Continuavano a fare flessioni sulle nocche, sulle cinque punte delle dita, su un braccio solo nelle diverse varianti. Gli altri ragazzi cominciarono ad arrendersi fin quando a fianco di mio fratello rimase soltanto Hai, il maggiore. Infine Hai crollò. Guardammo tutti con incredulità Thuan continuare la dimostrazione su un braccio solo, la mano sinistra a stringere saldamente il polso destro, il peso del suo corpo interamente caricato sul pollice e l'indice della mano destra. Ero colpito: dalla risolutezza di mio fratello tanto quanto dalla sua forza, dal fatto che si fosse esercitato in segreto, per mesi. (Lo dico con cognizione di causa, perché soltanto dopo tre mesi, fino a intaccare il pavimento del bagno in due punti grandi come monete, ci sono riuscito a mia volta).

Mio fratello credeva che niente possa renderti ridicolo se sei forte. Il suo metodo era affrontare le cose direttamente; entrando in una nuova scuola, per esempio, faceva quello che tradizionalmente il cinema ci ha insegnato a fare al momento di entrare in prigione: battersi e vincere. Mi chiedevo cosa avesse fatto in carcere. Nostro padre, a suo modo, non era riuscito a inculcarcelo, e così me lo aveva inculcato mio fratello. Allora pensavo di odiarlo per questo, ma mi sbagliavo. Volevo conoscerlo. L'ho sempre voluto. Ora mi rendo conto che a questo mi potevo avvicinare soltanto quando si imponeva fisicamente, quindi ineluttabilmente con la violenza.

Sono sulla strada della mia infanzia. Sono in ritardo, non ho tempo di curiosare nel recinto in disuso, di entrare e uscire da sotto gli spruzzatori del prato all'inglese, né di prendere un attimo di respiro ai piedi della collina. Lui è da solo, mi aspetta. Entrambi i nostri genitori al lavoro. Sono in ritardo, e quando arriverò sull'ingresso di casa lui mi punirà, queste sono le sue regole, e sono abbastanza chiare. Entro ed eccolo lì, proprio davanti a me, il volto imperscrutabile. Mi lascia il tempo di appoggiare lo zaino e chiudere la porta. Tolgo le scarpe. Il calore mi strizza le budella e sale in gola impedendomi di respirare. Alzo le braccia per proteggermi il volto e mi colpisce con un manrovescio.

«Dove sei stato. Sei in ritardo».
Annuisco, lecco le labbra spaccate e mi riparo velocemente in salotto. Mi segue sul divano dove inarco la schiena e seppellisco il volto sotto il cuscino rosso scuro. Mi colpisce a ripetizione con le nocche sulle parti dure della testa dove non resteranno lividi. Il cuscino ha un odore di sangue vecchio, e sputo, e di sudore dei nostri corpi. Se mi allungo all'indietro alla ricerca del braccio, del suo pugno, e cerco di fermarlo con il mio palmo, più piccolo, sudato, mi torce le dita. Se mi volto a implorarlo, incontro il suo sguardo assente, come se la sua attenzione fosse rivolta ad altro, come se mi colpisse il cranio per raggiungere qualcosa al di là. Non ha pietà e nei momenti di maggior forza lo invidio. Mi dispiace, gli dico. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Mi infila il ginocchio nella schiena. All'apice del panico e del dolore qualcosa si libera in me. Mi asciugo il viso sul cuscino e cerco di non sporcare di sangue, nel caso in cui ci sia sangue, il tappeto. Cerco la mia immagine riflessa nello specchio del bagno. Se ci fossero segni visibili, cercherà di barattare, la prossima volta mi lascerà in pace e sarà disposto a fare le faccende domestiche al mio posto e a comprarmi ciambelle allo spaccio, purché lo lasci fuori. Ma raramente ci sono segni visibili.

«Che cosa è successo?», chiede mia madre.
Ha avuto una giornata difficile e ha un'espressione assente.
«Niente».
Fa una pausa. «Lo dirò a tuo padre».
La guardo con disprezzo. Sa anche lei di non meritare una risposta.
Uno dei chiodi fissi dei mass media sul conto di mio fratello - al di là della consueta definizione di "mostro" - è richiamare l'attenzione sulla sua imperscrutabilità. Nessuno degli altri colpevoli meritò una tale considerazione. I ragazzi assistiti dall'ong, per esempio, avevano un aspetto irrimediabilmente colpevole. Ma i giornalisti e i ritrattisti in aula hanno sempre descritto abilmente e con grande consapevolezza la loro impotenza di fronte al volto impenetrabile di Nguyen Xuan Thuan, un volto definito "tranquillo", o "una maschera", su qualcuno di cui era perfino difficile pronunciare il nome. Capivo la loro frustrazione. Mio fratello era una persona piena di difetti, eppure sembrava sempre riuscire a incanalarli verso qualcosa che assomigliava al carisma. Non l'ho mai giudicato in vita mia, per me rappresentava il compimento del mio genoma. Non ho mai creduto, dopo quello che è successo, il processo e tutto il resto, che perfetti sconosciuti potessero essere capaci del mio stesso riserbo. Non è per difendere quello che ha fatto. Ma per dire che capisco, completamente, la macabra e maniacale insistenza dei media sui dettagli di quella notte. I fatti in questione. L'alterco e l'espulsione dalla discoteca. La prima vittima raggiunta e fatta a pezzi da una banda armata di machete, mannaie da macellaio e spade da samurai.

Il nauseante conteggio delle ferite su quel corpo. Le vittime numero due e tre fuggite gettandosi nel fiume Yarra, trascinate dall'acqua per circa duecento metri a ovest, seguite come ombre lungo la costa dalla banda. Una sfregiata ai polsi e agli avambracci, tre dita mancanti sotto le nocche, a causa di un presunto tentativo di tornare a riva. Difficile ricordare questi dettagli. I volti assennati, i servizi televisivi dalla riva del fiume, le dichiarazioni formulate dai membri dell'ufficio del sindaco, dalla squadra omicidi, dalla squadra asiatica, mentre nel paesaggio invernale, giorno dopo giorno, le famiglie in lutto vegliavano, pregando in vietnamita, offrendo bastoncini d'incenso, accendendo e liberando fogli di carta velina. Potreste perfino avermi sentito parlare, in una delle mie presentazioni, di questo episodio. La maggior parte della gente riconosce mio fratello solo attraverso uno dei soprannomi che gli hanno affibbiato i giornali: l'assassino con la mannaia. Era lì sulla riva, quella notte. Ecco quello che la maggior parte della gente non sa, quello di cui non ho mai parlato: io ero lì con lui.

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