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Il Nobel Soyinka: «Attraverso la letteratura lotto per la democrazia nella mia Nigeria»

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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2010 alle ore 23:14.

Straordinario poeta, drammaturgo fra i più grandi viventi di lingua inglese, Wole Soyinka non è solo il primo africano ad aver ricevuto il Nobel per la letteratura, è anche un eroe. Pensatore indipendente armato di una prosa affilata da rara lucidità, da decenni si batte per portare la democrazia e il rispetto dei diritti umani nel suo paese, la Nigeria, e altrove. Per aver cercato di evitare la guerra civile che portò alla crisi del Biafra, fu incarcerato due anni. Lo abbiamo incontrato a Parma Poesia, dove una folla di ammiratori si è radunata nel cortile della Pilotta per ascoltarlo recitare alcuni suoi versi.


In "Clima di paura" (Codice edizioni), estratto delle Reith Lectures del 2004, descrivete come il mondo sia attanagliato da un clima di paura in costante evoluzione. Un'atmosfera che fate partire non dall'11 settembre 2001, bensì dal 1989, quando un aereo con 170 passeggeri della compagnia Uta esplose sui cieli del Niger per un sabotaggio. È una riflessione ancora molto attuale. Il suo pensiero, da allora, è cambiato?
È attuale, e cambia in continuazione. Nel 2004 la natura della paura era molto poco focalizzata, era multidirezionale. La paura, l'arma di chi vuole creare il terrore, viene dall'insicurezza, dall'incertezza. Dal sapere che ci sono dei pazzi a piede libero, senza poter prevedere da parte arriveranno. Esistono, sono completamente irrazionali e la loro percezione di ciò che è sbagliato può essere legata a cause attuali o storiche. Per esempio, una delle strane spiegazioni portate dai terroristi che provocarono le esplosioni nelle stazioni ferroviarie spagnole risaliva a diversi secoli addietro, al fatto che la Spagna non avesse ancora chiesto scusa per certe cose che aveva commesso contro i musulmani. Questo gruppo di persone che vive nel modo contemporaneo guarda dunque nei secoli passati per trovare la motivazione per infliggere atrocità alle generazioni attuali, innocenti. Non si trattava dunque solo di un sentimento di vendetta indirizzato male ad aver contribuito a quella diffusa e imprevedibile stagione di paura. E oggi siamo testimoni di un certo spostamento nell'enfasi: il precedente senso di paura diffuso non è sparito, assolutamente, è stato rafforzato incidentalmente. Penso alla Corea del Nord e all'Iran una teocrazia totalitaria che comincia a prendere la sua parte nel mondo e che genera nuove direzioni della paura. Penso a quella pazzia che viene dal sentirsi invisibili: è un altro aspetto, un "colore", della paura che va a sormontare i precedenti e che si comincia a tenere in conto nei calcoli universali sull'insicurezza. C'è un senso di competizione nel dare prova di se stessi contro tutti gli altri.

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Dare prova di se stessi con il potere della paura.
Sì, attraverso un senso di dominazione, non con la creatività, o con lo sviluppo, o le scoperte scientifiche o l'esplorazione spaziale. No, dare prova di se stessi dicendo "sono più forte di te: posso portare la paura nella tua vita".

La paura crea altra paura, e il meccanismo tende a rinforzarsi. Come fermare questo processo?
È molto difficile. Uno dei modi è andare alle radici, o infiltrarsi per vie diplomatiche, o far capire che tali condanne al terrore sono accettate come parte della comunità mondiale. Ma si ha a che fare con ego molto molto grandi, e a volte questo metodo viene interpretato come una conciliazione. Non come un tentativo di regolamentare le relazioni, ma come un segno di timore. È un lavoro per uno "psicologo globale" quello di avere a che fare con le follie collettive che vediamo nei governi dei paesi prima citati.

Il suo paese, la Nigeria, ha una cultura antica e ricchissima. Eppure da diversi decenni non trova pace e stabilità. Cosa la avvelena?
Come diverse ex-colonie soffre i postumi della sbronza dell'esperienza coloniale. Ma, allo stesso tempo, questi paesi non hanno più il diritto di continuare a usarla come scusa. Faccio un esempio: quando gli inglesi lasciarono la Nigeria fecero in modo che il potere andasse alle parti politicamente meno sofisticate del paese. Il senso di dover guidare, di dover mantenere il potere in modo permanente, ha creato molte tensioni sociali, una continua destituzione del processo elettorale. Così gli eredi di quello strascico coloniale hanno continuato a governare. Poi la scoperta del petrolio ha contribuito a peggiorare le cose. Il petrolio non è stato usato con giudizio, a beneficio delle persone. Ha creato un'enorme cupidigia, uso deliberatamente cupidigia al posto di corruzione, che è un termine più familiare, perché ha portato a una corruzione sistematica nella leadership. Ed è lo sforzo di correggere questa avidità che provoca tensione. Ecco perché c'è molta militanza nel delta del Niger, l'area dove si produce il petrolio, perché loro guardano a loro stessi e vedono quanto poco sono sviluppati, quanto sono poveri, vedono il denaro andare nelle tasche dei privati mentre il loro territorio è completamente degradato dallo sfruttamento indiscriminato. Le terre agricole sono inquinate, le aree di pesca sono inquinate. La corruzione del potere politico è il grande problema della Nigeria, e quando dico che sono postumi da sbronza coloniale, non lo uso assolutamente come una scusa per questa leadership. Ma è un fatto storico. Non solo gli inglesi hanno manipolato le prime elezioni, ma addirittura il censo, per dare la maggioranza alle parti più retrograde del paese. È una lunga storia, ma non c'è nessuna scusa per ciò che sta accadendo. È tempo di correggere le anomalie del passato.

È un paradosso diffuso in molti paesi africani: la terra è ricchissima di risorse, ma le popolazioni locali poverissime.
È proprio così. Perché la leadership è alienata. Si sono messi esattamente nelle scarpe del potere coloniale quando se ne è andato: stessi privilegi, la stessa distanza dalla gente normale, lo stesso contegno. E naturalmente la gente non lo accetta a lungo. Così c'è tensione, guerre civili. Questa è la storia di gran parte dell'Africa postcoloniale.

Qualche mese fa Nadine Gordimer, Nobel per la letteratura, africana come lei, durante un'intervista a questo giornale affermò che Nelson Mandela e Gandhi sono state le due figure veramente grandi del secolo passato. Condivide il suo pensiero?
Sì, è un'affermazione molto giusta. Dovrei pensare molto a lungo per riuscire ad aggiungerne una terza. Sono stati due giganti, due creature di un altro mondo.

Si è molto speso per la Nigeria. Se un giorno le chiedessero di assumere un ruolo di guida politica del suo paese, accetterebbe?
Me lo hanno già chiesto, più volte, ma ho rifiutato tutte le volte, non perché rifiuti per principio, ogni volta ci ho riflettuto, ma mi rendevo conto che mi mancava il temperamento. Ci vuole un'indole particolare per la politica, e richiede una dedizione assoluta. Non si può continuare a scrivere, l'esperienza di Václav Havel lo dimostra. Risponderei ancora no.

Ha chiesto alle ex potenze coloniali di restituire le opere d'arte che sono state rubate dalla Nigeria, ha avuto successo questa sua battaglia?
Non dedico il mio tempo a questo, ma ogni volta che si torna a parlare di "risarcimento" da parte delle passate potenze coloniali, poiché questo è un argomento assai complicato e difficile da realizzare, io propongo che uno dei modi in cui questo può essere messo in pratica è la restituzione delle opere d'arte che hanno rubato, non solo dalla Nigeria, ma da molti paesi africani che sono stati colonizzati. Le opere d'arte, infatti, rappresentano un "precipitato" dell'umanesimo di un popolo, e ciò che il resto del mondo ha fatto al continente africano è di averlo deprivato del sua umanità. In due modi: con il commercio degli schiavi e poi con l'imposizione coloniale.

Gli italiani hanno avuto la possibilità di apprezzare la bellezza dell'arte Yoruba, e in particolare di quella sviluppatesi a Ife nel nostro alto medioevo, grazie a una splendida mostra che si è svolta a Firenze nel 2005 ("Quando Dio abitava a Ife. Capolavori dall'antica Nigeria). Volevo chiedere a lei, che ha abitato e tuttora insegna in quella che è considerata la città sacra del popolo Yoruba, cosa è rimasto a Ife del suo patrimonio culturale?
C'è molto ancora in Nigeria, ma la gran parte di quello che è rimasto non si trova più nel suo luogo originale. Ci sono stati molti scavi. Ci sono molte opere che fanno parte di collezioni private, anche io ho degli oggetti che ho salvato comprandoli da commercianti di opere d'arte. Il destino dell'arte, degli oggetti d'arte, fatta eccezione per grandi pezzi monumentali, è di essere spostato, di muoversi, quindi questo non deve essere considerato come qualcosa di singolare. Ma c'è ancora moltissimo in Nigeria e a Ife, nei santuari, nei palazzi, nei templi privati o in quelli delle comunità, e c'è ancora moltissimo sottoterra. Gli scavi portano continuamente alla luce altre opere. È difficile fare una stima.

Ma c'è anche commercio illegale di oggetti d'arte.
Oh, sì, moltissimo. Molta esportazione illegale.

lara.ricci@ilsole24ore.com
Wole Soyinka sarà ospite della Milanesiana venerdì 16 luglio alle 21 (al teatro Dal Verme di Milano) e sabato 17 luglio alle 12 (Sala Buzzati, Museo della Scienza e della tecnologia Leonardo Da Vinci, Milano)

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