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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2010 alle ore 16:43.
Ha ventisei piani e centosei metri di altezza, in una città piuttosto piatta, eppure, in qualche modo, la sua presenza è sempre rimasta un rigo sotto. La Torre Velasca di Milano, adesso messa in vendita, è forse il miglior simbolo monumentale del dopoguerra ambrosiano. Per la verità, si tratta di un simbolo in seconda, di un vicesimbolo. Pur schiacciata dall'altezza, dalla notorietà, dal ruolo istituzionale, dall'agilità di linee del contemporaneo grattacielo Pirelli, la Velasca è però, proprio per questa sua rinuncia al primo gradino del podio architettonico, un testimone più genuino dell'ultimo mezzo secolo di una città che notoriamente custodisce nei cortili i suoi scorci più belli, piuttosto che esibirli di primo acchito.
Frutto di un periodo, la fine degli anni Cinquanta, in cui si era riavviata nel capoluogo lombardo una robusta circolazione di "danee", la Torre, piantata nel cuore del centro storico sciupato dai bombardamenti, mantiene un qual certo pudico senso del limite di impronta meneghina. Verticale sì, in un afflato da Nuova York padana, ma in definitiva terragna, con il suo largo corpaccione a pianta larga e il suo colorito passatista. Alta sì, ma, al contrario del più svettante Pirellone, rispettosa della celeste collocazione della vicina Madonnina, che continua ad allungare la testa giusto un paio di metri più in su.
Pezzo pregiato del disegno edilizio di quegli anni, ma con i suoi autori celati dalla criptica sigla BBPR, in cui soltanto i cultori saranno riconoscere i nomi degli architetti Banfi, Barbiano di Belgiojoso, Peressutti e Rogers. Qualche anno fa, anche Aldo Nove, nel suo "Milano non è Milano", incappò nella diffusa ma erronea convinzione secondo cui la "P" della sigla indica Giò Ponti, una svista che in una scorticatura del libro apparsa sul Foglio Camillo Langone definì "fragoroso raglio". Simbolo del boom, location riconoscibile per il cinema e la letteratura, la Torre Velasca non ha però vero spessore drammatico.
Buona come luogo-cult in cui ospitare una cassaforte da scassinare nell'amarcordiano e innocuo romanzo "Neppure un rigo in cronaca" di Gino & Michele, la Torre viene spodestata dal Pirellone quando il gioco letterario si fa più serio. Infatti, quando nel 1964 il regista Carlo Lizzani tradusse in pellicola "La vita agra" di Luciano Bianciardi, per dare consistenza visiva al "torracchione" della Montecatini che il protagonista vuol far saltare in aria per vendicare una strage di minatori maremmani, ecco che la macchina da presa sceglie il grattacielo Pirelli progettato, quello sì, da Giò Ponti.