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La seduzione del male, a Locarno Magimel fa l'avvocato del diavolo

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2010 alle ore 08:46.

Strane giornate qui a Locarno. Se è evidente che il festival ha guadagnato consensi e qualità rispetto agli ultimi due anni di Frédèric Maire e che comunque la rassegna sembra proiettata verso un rilancio deciso e dalle prospettive molto interessanti, gli ultimi due film della Piazza Grande lasciano interdetti. Hanno cose ottime ma, in qualche modo, finiscono anche per deludere.

Vale per L'avocat di Cédric Anger, che arruola Benoit Magimel nel ruolo di un avvocato rampante e idealista che incappa, dopo casi disperati e cause perse rifilate dai soci del suo studio, nell'occasione della vita. e, scoprirà, forse anche della morte.

Uno spunto interessante e cattivo, che prometteva benissimo. Magimel si conferma pieno di talento e si trova persino a suo agio nella parte dell'avvocato che ha sogni borghesi, una moglie bellissima (Aissa Maiga) e una dialettica un po' arrogante. E meglio è Gilbert Melki, che qui è Paul Vanoni, boss ripulito. Lavora nello smaltimento rifiuti, meglio se tossici, e ha metodi che farebbero impallidire persino il Servillo di Gomorra. Con quella faccia da bandito marsigliese che si ritrova, in questo polàr legale, ruba la scena con fascino mefistofelico. Ed è qui che scatta il rimpianto: temi scottanti e scomodi, con possibilità anche di un'analisi politica ed economica, e una coppia d'attori di grande livello. Ma regia e sceneggiatura, debitrici nelle intenzioni di un film come L'avvocato del diavolo e nelle intuizioni de Il socio del compianto Pollack, appiattiscono tutto su un registro da melodramma televisivo, costringendoci ad annoiarci senza approfondire ma scopiazzando qua e là. Un buon intrattenimento, forse, ma che lascia tanto amaro in bocca.

E un po' il sapore dell'insoddisfazione rimane anche con The human resources manager. A dirigerlo è quell'Eran Riklis che ha conquistato il mondo dei cinefili con La sposa siriana e Il giardino dei limoni. E che qui vuole confrontarsi con il tema della diaspora dalla parte di una migrante dell'Europa dell'Est e cristiana, che deve accompagnare nel suo viaggio. Il motivo è tragico: lei è stata vittima di un attentato terroristico su un autobus a Gerusalemme, lui è un dirigente del panificio in cui lei lavorava e finisce in prima pagina per comportamento disumano della sua ditta, accusata di indifferenza per le sorti della sua operaia. Lei, infatti, in Israele non ha nessuno e nessuno ne reclama la salma. In un viaggio assurdo che parte dalla città santa e finisce quasi in Russia, e per di piu' su un carro armato, lui non troverà il posto per lei- un migrante spesso perde tutto quando parte e persino quando ritorna- ma forse lo troverà per se stesso.

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Riklis ci commuove con la sua storia e i suoi sottotesti (molto del merito, pero' è del libro omonimo di Abraham Yehoshua del 2004, da cui il film è tratto) e ci fa sorridere con i caratteristi(ci) compagni di viaggio: dal viceconsole al giornalista arrivando all'autista ubriacone. "Quando ho fatto i miei film precedenti ho sempre negato la loro natura politica. Ma questo lo è, anche perchè di questi tempi tutto è politico, la politica ormai ci influenza troppo. E poi la donna da cui parte tutta la storia muore in un attacco suicida a Gerusalemme, una donna innocente che era venuta dall'Europa Orientale, per lavorare. E, aggiungiamo noi, lui nei momenti cruciali, usa un carro armato. Certo, dismesso. Certo è un espediente tragicomico. Ma forse è anche un lapsus cinefreudiano. Locarno è anche questo: film che fanno riflettere, che cercano una loro vi(t)a. Forse imperfetti, ma quasi sempre interessanti.

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