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Cultura-Domenica Musica

I Dik Dik rivelano: «All'isola di Wight ci avrebbero contestato»

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Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2010 alle ore 18:56.

Evviva gli anni Sessanta, evviva l'autocoscienza personale e politica così in voga nel decennio del Flower Power. Nella Milano dell'era iPhone, a quanto pare, c'è ancora chi ha il coraggio di metterla in pratica, come Pietro Montalbetti, in arte Pietruccio, «hippie irriducibile» per sua stessa ammissione, chitarrista e cantante dei Dik Dik dal 1965 a oggi, nonché scrittore esordiente con la recente autobiografia "I ragazzi della via Stendhal" (Aerostella Editore). Sentite qua: «Se all'isola di Wight ci avessimo suonato davvero, saremmo stati contestati duramente dal pubblico, magari pure con azioni violente».

Ma come? Tutto ciò detto dall'«ideologo» della band che nel ‘70 sbancò le charts italiane proprio con il singolo «L'isola di Wight» dedicato al leggendario rock festival britannico? Ebbene sì. «I tempi cambiano, – commenta Pietruccio – si diventa subito spietati con chi rappresenta un passato di soltanto poche ore prima».

Pietruccio, come vi venne l'idea di fare la cover di «Wight is white» del francese Michel Delpech?
Fu un caso. Era il 1970 e noi Dik Dik eravamo da poco usciti dalla «giurisdizione» di Battisti e Mogol sotto la quale avevamo lavorato fino a quel momento. Da un po' di tempo mi girava per la testa l'idea di dedicare una canzone al fenomeno dei maxiraduni rock che attraevano centinaia di migliaia di giovani da una parte all'altra dell'Atlantico: prima il Monterrey Pop Festival, poi Woodstock ma anche le tre edizioni dell'isola di Wight. Piuttosto casualmente, ascoltai il pezzo di Delpech che in Francia era andato malissimo. Pensai: è perfetto. Lo incidemmo in fretta e furia e fu un successo assoluto: più di un milione di copie vendute.

Una curiosità: il testo originale di Delpech presuppone già che chi ascolta conosca il Movimento («Wight è bianca/ Dylan è Dylan/ viva Donovan»), quello vostro dà più un'idea «divulgativa» («Sai cos'è/ l'isola di Wight/ è per noi/ l'isola di chi…»): ci siete voi che spiegate agli italiani cos'è stato il Festival. Colpa di un certo provincialismo del pubblico italiano dei Sixties?
Al di là di tutto, credo che quello della nostra versione sia un ottimo testo. A scriverlo fu Claudio Daiano, paroliere molto bravo quando si trattava di tradurre canzoni nella nostra lingua. Non è un caso se ancora oggi, quando eseguiamo il pezzo in concerto, avvertiamo una specie di esplosione dalle parti del pubblico. Forse più di quanto non succeda per «Sognando la California» o «Senza luce». La marcia in più è sempre nella struttura armonica: tre accordi, come in tutte le canzoni di grande successo.

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La marginalità del mercato discografico italiano di fatto ha impedito a gruppi come il vostro di potersi esibire nei famosi maxiraduni anni Sessanta.
A riguardo non ho nulla da rimpiangere, perché so che seppure avessimo suonato a Woodstock o Wight alla fine saremmo stati contestati dal pubblico. C'è poco da fare: in quel periodo i tempi stavano cambiando, il movimento purtroppo andava verso una politicizzazione più radicale, non c'era molto spazio per chi come noi faceva musica più orientata al pop.

E da spettatore le è capitato di prendere parte a qualcuno di questi storici raduni?
Purtroppo no: eravamo sempre in tour o in sala d'incisione, all'epoca. Eppure mi sarebbe piaciuto parecchio. Sono un hippie irriducibile: comincio ogni mio concerto citando «I have a dream» di Martin Luther King. E sono anche un acceso contestatore delle «derive» della mia generazione. Ritengo per esempio imperdonabile il fatto che abbiamo svenduto un così straordinario patrimonio di idee e valori, fino a produrre il vuoto della società contemporanea.

Poi a Milano, assieme agli altri Dik Dik, ha aperto anche un locale. Che si chiama – guarda caso – «L'isola di Wight».
È un posto nel quale fare musica in libertà, diciamo una specie di «Hard Rock Café» all'italiana. Un «Pop Rock Café». E l'abbiamo voluto intitolare al posto che ci rappresenta di più.

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