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Il regista tunisino Kechiche racconta la venere ottentotta e spiega perché oggi sarebbe rom

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2010 alle ore 19:32.

La Venere nera di Abdellatif Kechiche, regista tunisino ma francese di adozione, in concorso ieri alla Mostra del cinema di Venezia, racconta la storia di Saartjie Baartman, giovane donna sudafricana che venne esibita in Europa come un animale da circo in virtù dei suoi connotati fisici prominenti e per i genitali molto gonfi, caratteristica degli ottentotti. Saartjie finisce nel museo di storia naturale a Parigi, mutilata, e il suo corpo fornisce all'anatomista Georges Curvier, osannato in patria, la base di una teoria sulla disuguaglianza delle razze.

«I temi del film, razzismo e sessismo – denuncia Kechiche, pur mantenendo il suo abituale contegno ieratico -, hanno una valenza politica contemporanea. Le teorie di Cuvier sono state elaborate in tempi recenti, diventando supporto del fascismo. È quello che accade oggi quando al nostro sguardo l'altro appare diverso. Io sono molto preoccupato per la Francia, in cui Sarkozy espelle i Rom». Tutta la Mostra oggi è dominata dalla pingue e sproporzionata fanciulla di colore, esistita davvero nel 1800. Trofeo della razza ottentotta, esibito nei teatri e nelle corti ottocentesche europee, colpisce allo stomaco con la durezza della sua storia, che Kechice non edulcora in alcun aspetto, ma anzi riporta fedelmente con perizia quasi documentaristica.

Il regista sembra felice di tornare a Venezia dopo il premio speciale della giuria e della critica internazionale conquistato nel 2007 con Cous cous. Allora aveva dato in escandescenze per quel Leone d'oro andato ad Ang Lee e che riteneva sottratto a lui. Oggi sembra più tranquillo, più in carne, sprofondato in un divano nel buio di una mattinata piovosa. Il film, della durata di tre ore, segue tutta la vita di Saartjie (Yahima Torrès) dal momento in cui approda in Inghilterra e viene coinvolta in un processo in cui il compagno di palcoscenico viene accusato di razzismo e riduzione in schiavitù. Assolti, Saartjie cambierà compagnia e andrà in Francia dove nessuno si sognerà di dire nulla dei maltrattamenti subiti dalla venere ottentotta.

«Mi sono appassionato a questa storia – spiega il regista – quando nel 2002 fu proposta una legge per far ritornare il suo corpo in Sudafrica. Ho seguito il dibattito e mi sono sorpreso che 1994, dopo l'abolizione dell'apartheid, Nelson Mandea in persona si fosse mobilitato per chiedere i resti di Saartjie. Ho cominciato a leggere tutto ciò che la riguardasse: i libri, gli atti del processo in Inghilterra, i giornali del tempo in cui si parlava dei suoi spettacoli. Mi sono appassionato a questo personaggio, perché è straordinario e ha subito suscitato in me un senso di fraternità. Ho potuto capire molto più dall'espressione del suo viso che dalle sue parole». Al museo di storia naturale di Parigi infatti, fino al 2002 era esposto un calco in gesso di Sartjie dall'espressione dolente. Il corpo era stato venduto dal suo agente allo scienziato Cuvier e i suoi genitali messi sotto formaldeide ed esposti per duecento anni al pubblico.

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«Mi ha impressionato la parabola di una persona di cui è stata completamente ribaltata la volontà. In vita non aveva voluto mostrare agli scienziati le sue parti intime e dopo la morta si trova a esporle al mondo intero». In realtà nella pellicola, si racconta quella che il regista chiama «un percorso verso l'abisso di un corpo». Anche se Kechiche assicura che non è importante il sesso del protagonista quanto l'esposizione forzata a una platea, ammette che «la discriminazione sessuale passa attraverso il corpo della donna». Il "domatore" di Sartjie invita tutti a toccare la venere. «Ho voluto indagare l'effetto dello sguardo. Cosa vediamo quando siamo in gruppo, qual è invece il nostro punto di vista quando siamo soli. E nel film mostro sguardi affascinati, teneri, pieni di pudore, ilari, bestiali. Non possiamo cambiare lo sguardo degli altri, ma possiamo capire cosa pensano».

La venere nera nelle sua fedeltà certosina alla storia dà la sensazione di essere un po' pretenziosa e anche la lunghezza esagerata, non giustificata dagli eventi da raccontare, può dare l'idea di una certa presunzione a ritenere tutte le scene capolavori intagliabili. Tuttavia la storia è incredibile e sconosciuta e merita di essere raccontata con la forza di immagini e di crudezza che Kechiche ci offre grazie a una splendida fotografia e all'interpretazione di Yahima Torrès. Quello che comunque si dice un film importante.

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