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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2010 alle ore 18:45.
Era il giorno di Mario Martone, e i suoi 204 minuti dedicati al Risorgimento e all'Unità d'Italia erano molto attesi. Inevitabile: per il cast incredibile, per la strana coppia alla sceneggiatura - il regista è affiancato a Giancarlo De Cataldo; per l'enorme impresa, quella di rifare, o meglio, riscrivere l'Italia e la sua storia dal basso, che appariva titanica. E, nonostante un'accoglienza fredda (o, più che altro, pensierosa) della stampa, questo «Noi credevamo» appare come un'opera sontuosa e fondamentale.
Attori meravigliosi, dal centellinato Mazzini di Servillo alla Cristina di Belgiojoso divisa tra due mattatrici come Francesca Inaudi e Anna Bonaiuto, dal disertore Michele Riondino a Guido Caprino nella parte dell'attentatore e capopopolo Orsini, la squadra che ha tentato e vinto l'impresa non vede defaillance, coronandosi nell'incredibile performance di Valerio Binasco a cui dovrebbero dare, senza se e senza ma, la coppa Volpi. Martone affronta l'alba della nazione, e i decenni precedenti, con una lucidità storica, politica e cinematografica che probabilmente farà discutere. Quella che esce dal film di Martone è la solita Italia cialtrona e idealista, impetuosa ma anche vigliacca, opportunista e bifronte.
Nessuno dei leader spicca, perchè tutti hanno responsabilità pesanti su questo paese ancora diviso, la scena finale di un Mazzini ormai al tramonto della sua vita è illuminante almeno quanto il discorso di Crispi (Luca Zingaretti) che preannuncia quel ceto politico che lentamente e inesorabilmente ci avrebbe fatto cadere nella nostra pavida mediocrità, perfetto esempio di cinico realismo e sete di potere. Martone racconta il Risorgimento dal basso, ci fa sentire la rabbia e il disorientamento di un popolo che vuole disperatamente essere tale e di una rivoluzione mai stata tale, perchè, come anche nel passato più recente, affidato a elite egoiste e vanesie.
Con una scelta obbligata di pochi grandi momenti storici, poco etici e poco epici, con interpretazioni audaci e controcorrente, Martone offre una semplice e inquietante verità soprattutto a chi demonizza il paese degli ultimi tre decenni. Le radici del nostro declino, come paese, non risiedono certo negli ultimi pur disastrosi trent'anni, ma in un'Italia che è nata, forse, morta e che si intuisce in quei meridionali uccisi come briganti, solo perchè consapevoli di un'Unità a senso unico, a favore del Piemonte e del Nord.