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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2010 alle ore 20:01.
Nella giornata in cui viene confermata, a sorpresa, la presenza di Bruce Springsteen per la presentazione del documentario «The promise», nella sezione Extra, si comincia a fare sul serio nel Festival di Roma. Arriva, intanto, il primo film italiano in concorso, «La scuola è finita» di Valerio Jalongo. Film che entra ed esce nel reale, essendo il regista un professore ed avendo tra i cosceneggiatori quel Daniele Luchetti che diresse «La scuola», piccolo gioiello che fu «L'attimo fuggente»nostrano molti anni fa.
«La scuola è finita»risulta da subito pieno di buone intenzioni e di cattive intuizioni, racconta la storia di un istituto scolastico di periferia, tra perquisizioni alla ricerca di stupefacenti e ragazzi di vita con facce troppo affascinanti e talenti nascosti troppo evidenti per essere veri, o almeno veritieri.
Un neorealismo pop, quello di Jalongo, che ci regala una storia di pedagogia al contrario, non riesce a valorizzare i pur bravi attori nel cast, vedi la coppia scoppiata Valeria Golino- Vincenzo Amato, e si perde in dialoghi sconclusionati e poco incisivi. Un'occasione persa che soffre dell'asfissia che il genere cinescolastico ha sempre avuto in Italia, mai capace di disegnare con efficacia un universo complesso, complicato e contraddittorio come quello dell'istruzione italiana, sempre più votata all'(auto)distruzione.
Ci si perde tra viaggi, trip poco credibili e okkupazioni che sembrano ricordare quella mucciniana di «Come te nessuno mai» - ma in peggio, e non era facile - e alla regia come in scrittura non c'è mai quel guizzo sorprendente che possa fare la differenza. E così la fiaba senza lieto fine di un ragazzo maledetto si perde nella banalità di una scuola in cui ad essere proiettate non sono né la realtà, né le nostre paure, ma solo troppi stereotipi. E così l'occupazione più riuscita di Jalongo è di sicura quella, vera, operata con i suoi colleghi sul red carpet capitolino, piuttosto che quella del non riuscito «La scuola è finita».
Ragazzi perduti sono anche quelli di «Animal Kingdom», anche se con qualche anno di più. David Michod ci regala dei goodfellas australiani che, con secca cattiveria, si muovono in un genere forse troppo consumato, ma quasi sempre gradevole. I modelli qui vanno da «Il padrino» a Scorsese, il film ci descrive una famiglia di criminali in guerra aperta con una polizia con metodi più violenti e illegali dei loro. Se i Cody hanno dalla loro una madre (Jacki Weaver, straordinaria), vera anima nera del gruppo, gli uomini in divisa hanno una sola mela non marcia, che cerca di individuare negli avversari l'elemento sano, l'esordiente, e altrettanto bravo, James Frecheville. L'opera, vincitrice dell'ultimo Sundance, si muove sui binari del genere nella maniera più classica, ma senza privarsi di una ferocia morale e di un cinismo che viene portato fino alla fine, con scientifica e mai retorica consequenzialità e un giovane protagonista solidissimo.