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Pasolini, lucciole senza lanterne

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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2010 alle ore 17:53.

L'immagine motrice è suggestiva, tonica, persino corretta dal lato della filologia: mangiarsi Pasolini con adeguato corredo di spezie, riconoscerlo come maestro e infine ingerirlo, così da assimilarne forza e sapere. L'aveva avanzata il regista stesso, in una sequenza di Uccellacci e uccellini; e ce la ripropone con gesto ardimentoso Marco Belpoliti nel volume Pasolini in salsa piccante (una raccolta di cinque scritti già parzialmente editi e ora rifusi con una puntuta prefazione).

Più didattico ed espositivo, ma terso, ricco di rimandi pertinenti, è il saggio di Roberto Carnero, Morire per le idee. Vita letteraria di P.P. Pasolini, apparso quasi contemporaneamente sui banchi delle librerie. Il mito di Pasolini – o come preferisce Belpoliti, il "complesso-Pasolini" – non cessa evidentemente di incidere nella nostra contemporaneità culturale. Si avverte però da qualche tempo una maggiore obbiettivazione nel giudizio, un senso più problematico dell'esame, che lascia intuire una digestione magari lenta e accidentata, ma di sostanza.

È appena il caso di segnalare il diverso atteggiamento dei due studiosi. Venuto dopo Pasolini, Carnero si sforza di tradurne l'opera presso i lettori nuovi, giovani studenti in essenza. La sua è una guida accurata, un baedeker attendibile e particolarmente proficuo per i lavori degli anni Sessanta, dove la sintonia tra il critico credente e il Pasolini intento ai temi religiosi risulta più stretta. Belpoliti, che del polemista friulano è stato contemporaneo, mira viceversa alla dissacrazione costruttiva, a un ripristino analitico che liberi dal martirologio e dalla agiografia complottistica di una morte tanto atrocemente spettacolare.

Un punto, questo, su cui sarebbe tempo di concordare, anche in modo più largo di quanto non proponga l'autore. Ben venga la riapertura del procedimento giudiziario, indaghino i magistrati valutando nuove evidenze e usufruendo di tecniche più aggiornate. Ma si metta fine alla farandola delle ipotesi, delle sovracostruzioni fantasiose su Cefise Mattei, la Montedison, la strategia della tensione: ciò vale per Gianni D'Elia e Carla Benedetti, per Carlo Lucarelli e Gianni Borgna, non solo per Marcello Dell'Utri. A un incursore libero come Pasolini, che nell'articolo "Il romanzo delle stragi" assicura: «Io so, perché sono un intellettuale»; bisognerebbe controbattere con pacatezza: ma cosa sa, positivamente, un intellettuale letterato? Da dove deriva la sua autorità circa materie che letterarie non sono?

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Nel mondo delle periferie

«Con certe brache di tela gonfie sul cavallo e strette alla caviglia... e con quelle facce, lì

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Era questa una domanda presentissima alla pubblicistica di Calvino, ma elusa dal polemista corsaro e luterano, talora con un certo fastidio. Il suo profetismo, ormai passato in proverbio, basa invero su Rimbaud e la relativa etichetta di voyant, di veggente, però trasposta su un terreno chee ccede a tutta vista le questioni del bello. Dice bene Belpoliti: i temi prediletti da Pasolini hanno natura estetica, ma vengono ritradotti senza tregua nei termini di un discorso etico. Estetismo, visceralità populista e magari misticismo erano d'altronde le accuse più comuni che già la critica coeva rivolgeva al poeta delle ceneri. Senonché Belpoliti ci tiene a precisare, e sotto il velo onnicomprensivo del vitalismo decadente individua un nucleo forte di ordine libidinale e omoerotico. Non un semplice dettaglio, o un dato biografico a carattere contingente, ma la radice prima da cui trae slancio la lettura pasoliniana circa l'Italia degli anni Settanta: l'elemento cardine «su cui egli ha fondato la critica della società dei consumi».

La stessa scomparsa delle lucciole, che tanta elegia sociologica ancora induce nei contemporanei, essendo emblema di una diversa scomparsa: quella dei ragazzi eterosessuali e disponibili, ora incattiviti da un habitus che insieme li abbrutisce e li uniforma a una modellistica piccoloborghese. Insomma, ribadisce Belpoliti a scanso di equivoci, «la vera questione che sottende la polemica pasoliniana negli Scritti corsari è prima di tutto unfatto erotico». Date simili premesse, sembrerebbe arduo ipotizzare un'assimilazione positiva del pasolinismo da parte dell'autore. Invece Belpoliti è a suo modo un'erede sincero del friulano, se non altro nei modi del commento e dell'esegesi visuale. Ne offrono documento almeno due degli scritti compresi nel volume, dedicati rispettivamente ai fotografi Ugo Mulas e Dino Pedriali. Certo, deponendo di Pasolini quella matrice multidisciplinare che insieme ad Arbasino e a Eco lo collocava al centro della disputa civile negli anni Settanta: vale a dire la semiologia, l'antropologia, l'inchiesta psicosociale.Giustamente Belpoliti insiste sul primato dei corpi, del soma giovanile entro i discorsi pasoliniani del periodo. Tuttavia quando si tratta di appropriarsene i risultati mostra di optare per altri modelli: Baudrillard, Barthes de La Camera chiara. In sostanza virando sì lacritica letteraria verso la civiltà dell'immagine, ma per tramite di contributi diversi, più impressionistici ed evocativi di quanto fosse nelle premesse del Maestro. Resta poi da stabilire quanto sia proficua, in termini critici, conoscitivi, una siffatta riformulazione del pasolinismo in termini pansessuali.

C'erano anche ideologia e progetto nella scrittura del friulano, non solo passione: c'era interdisciplinarietà operosa, estro disinvolto nella commistione dei saperi. Benché originato impulsivamente, e magari oscuramente, il suo era un discorso di portata universale, almeno nelle ambizioni. Si può osservare, se mai, che tanto centrale è per Pasolini la questione omoerotica, quanto piccola è l'influenza che egli ha poi esercitato presso i nascenti gruppi di liberazione omosessuale. E si capisce: ciò che raffigurava con rimpianto (e che Arbasino rilanciava con parole ancora più chiare negli interventi coevi) è un'omosessualità vissuta felicemente nei periodi di maggiorere pressione, quando la separatezza rigorosa dei sessi meglio predisponeva il mondo maschile a pratiche compensatorie. Insomma quando una riforma dei costumi in senso post-patriarcale era ancora di là da venire, e la limitatezza imposta degli scambi favoriva maggiori opportunità di soddisfazione tra simili. Una prospettiva politicamente regredita, che nessun movimento di emancipazione civile può sposare in spirito ingenuo. Di più: una fonte continua di equivoci, di errori "profetici"; come quello secondo cui il Nuovo Fascismo dei consumi, laico e americanista, imporrebbe il coito eterosessuale alla stregua di un dogma a cui attenersi (la tolleranza revertendo in una forma più subdola di obbligazione coercitiva, di addomesticamento larvato).

Su questo si sarebbe desiderata qualche parola in più da parte di Belpoliti, pure così coraggioso e positivamente scorretto. E in modo analogo va per un altro tema, che egli soltanto lambisce: i "destinati a esser morti", uno degli spunti di maggior buio reconsegnatici dal Pasolini luterano. Ovvero quegli adolescenti gratificati dal benessere e dalla scienza, senza di cui non sarebbero mai sopravvissuti, perché muniti alla base di una troppo scarsa dotazione naturale; e perciò remissivi, inameni, destinati a contaminare l'ambiente circostante. Qui non si tratta solo di Ivan Il'lic e delle sue critiche alla medicalizzazione della società, ma del positivismo peggiore, riattualizzato senza scrupoli nel nome di Nietzsche, per cui è indegno di esistere chi della vita non custodisce la forza, lo slancio energetico (e su questo stesso tema si rileggano con cura i motivi per cui il friulano si schiera a favore di una legalizzazione delle droghe, comprese quelle cosiddette pesanti). Un lato pasoliniano davvero inquietante, sul quale varrebbe la pena di convocare a dibattito tutti coloro, Giuliano Ferrara in testa, che ancora di recente hanno inteso nell'avversatore dell'aborto il più valido paladino a difesa del concepito, l'apologeta della vita nella sua sacralità intangibile.

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