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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2011 alle ore 12:36.

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Talenti e idee, che design saràTalenti e idee, che design sarà

Alcuni sono architetti (come tutti i grandi maestri del passato, che avevano quella formazione), molti altri arrivano dalle scuole di design, altri da esperienze creative diverse. Chiedono, oggi dopo un lustro di giusta attenzione anche mediatica (tutti hanno una "rassegna stampa" ormai notevole), di riconoscimenti critici doverosi (molti hanno avuto mostre personali e pubblicazioni monografiche), e dopo che molti imprenditori si sono accorti di loro (ognuno ha avuto almeno un'occasione di misurarsi con un'importante realtà industriale), di essere messi nella condizione di poter dare di più, e meglio, avendo i giusti tempi a disposizione.

Franco Albini aveva impiegato quasi vent'anni per perfezionare la poltroncina Luisa, Compasso d'Oro con Ezio e Roberto Poggi; Enzo Mari aveva lavorato cinque anni prima di consegnarci la sedia Tonietta, Compasso d'Oro con Aurelio Zanotta. Né Albini né Mari avrebbero potuto ottenere quei risultati senza la complicità generosa di quella razza di imprenditori, senza quel piacere reciproco di una sperimentazione paziente. Perché il design si fa in due, come ricordava sempre Magistretti, tra progettista e imprenditore. E occorre che questi giovani, per poter crescere ancora, abbiano anche la possibilità di sbagliare, che rimane l'unico modo di imparare («Chi sbaglia fa giusto», Achille Castiglioni). Per poterlo fare, occorrono imprenditori che credano fino in fondo nelle loro potenzialità, e non una volta sola.

Le possibilità ci sono, visto che le aziende italiane continuano a essere le migliori; certo, sono cambiate le geografie, e in questi anni il cuore pulsante si è in parte spostato, dalla Brianza si è esteso verso il Nordest, dove aziende come Foscarini, Dainese, Magis e Moroso hanno stabilito con slancio nuovi parametri di qualità, entrando di diritto nell'elenco ristretto delle realtà che dettano le nuove direzioni di ricerca. Ma per continuare a mantenere questo primato, il nostro paese (e Milano in particolare) dovrebbe dedicare energie e attenzioni anche alle scuole e alle istituzioni del design. Le scuole, che sono molte e diverse e che attirano anche molti studenti stranieri, dovrebbero superare i problemi strutturali delle università italiane che impediscono loro di svettare.

È triste dover constatare, per onestà intellettuale, che i migliori allievi escono oggi dalle scuole di Losanna, Londra, Eindhoven, e non dalle nostre scuole. I perché? Tanti, ma la colpa non è degli studenti, ma di chi insegna, di chi dirige, di chi governa. Nelle scuole straniere insegnano le migliori teste in circolazione, messe nella condizione di poterlo fare al meglio. Tra le risorse che mancano, piccole baronie che non permettono l'ingresso di talenti veri ma solo o quasi di persone omologate al sistema, corpo docente poco aggiornato e poco motivato, regolamenti che permettono sempre meno aperture verso il mondo esterno, strutturazione dei corsi di studi che hanno ridotto a un buon liceo le nostre università, è difficile immaginare che l'eccellenza possa accendersi in questi luoghi: sia chiaro, il livello è discreto, a volte buono, ma nella "capitale del design" dovremmo garantire solo l'eccellenza. E perché la città mantenga il suo primato internazionale, non solo nella settimana del Salone internazionale del mobile, occorrerebbero istituzioni più numerose, forti, lucide. Durante quella settimana succedono centinaia di cose, e tutte le persone che professionalmente o culturalmente sono legate al mondo della creatività e della progettazione arrivano a Milano.

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