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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2011 alle ore 19:07.

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Il regista iraniano Jafar Panahi - ReutersIl regista iraniano Jafar Panahi - Reuters

È arrivato al festival di Cannes su una chiavetta usb, accompagnato dal suo regista, l'iraniano Mojtaba Mirtahmasb, per anni anche presidente dell'Associazione documentaristi del suo paese: «This is not a film» mostra Jafar Panahi, attualmente in libertà dietro cauzione con il divieto di girare e di parlare con la stampa per venti lunghissimi anni, in dieci giorni a partire dallo scorso 21 marzo, data di inizio dei festeggiamenti per il nuovo anno iraniano.

«Jafar sostiene che se non può girare con la cinepresa, può almeno farlo con l'immaginazione», dice Mirtahmasb, che ora sta lavorando a un documentario sulle donne che, in Iran, non possono cantare da soliste in pubblico, ma lo fanno comunque. Gli hanno già ritirato due volte il passaporto, ma lui non rinuncia a parlare con franchezza della difficile situazione dell'Iran, orgoglioso di presentare a Cannes il suo documentario «per tenere i riflettori accesi su Jafar e tutti gli altri registi in una simile situazione. Per loro«This is not a film» vuole essere un incoraggiamento a non arrendersi. Si dice che i parrucchieri, se non possono tagliare i capelli ai clienti, se li tagliano fra di loro. Ecco, anche noi registi facciamo la stessa cosa e ci aiutiamo a vicenda».

Il suo accento è sulla speranza...
«I nostri problemi possono trasformarsi nella nostra ricchezza. Se non possiamo girare film di finzione, possiamo almeno realizzare un film di improvvisazione, costato 3200 euro compresi i sottotitoli e girato in dieci giorni come «This is not a film». In Iran ci sono sei diversi livelli di approvazione da parte del governo per ogni nuovo film progetto cinematografico, dal soggetto alla promozione. Quando un regista ha superato tutti questi livelli, e possono volerci anche due, tre anni, è già stanco prima ancora di cominciare a girare. Al contrario tutte le nostre energie sono andate nella realizzazione di «This is not a film», invece che nella burocrazia dei permessi ».

Qual e' il significato principale del documentario?
«Quando non possiamo orientare le nostre cineprese verso la società, noi registi ci mettiamo personalmente davanti all'obbiettivo per cercare di fare da specchio al nostro mondo. Vogliamo dimostrare che non si può fare cinema su ordinazione e che nessuno può impedire a un regista di girare».

E per far vedere il proprio lavoro al pubblico?
«L'esperienza ci insegna che ogni film trova la sua strada per uscire e rendersi visibile. Certo, noi registi indipendenti non abbiamo alcun sostegno da parte del governo, che promuove in Europa e nel mondo solo i film che hanno la sua approvazione e che per questo vengono finanziati con grande dispendio di denaro. Poi, però, nessun festival internazionale li vuole e allora devono per forza spendere altri soldi per… spingerli».

Non si indispettirà il governo iraniano per questo documentario e per le sue parole?
«Tutto è possibile…»

Qual è il suo obiettivo concreto con questo film?
«Voglio offrire al governo iraniano la possibilità di ammettere di aver commesso un errore sull'onda delle manifestazioni in Iran impedendo a Jafar di fare il suo lavoro e vorrei invogliarlo a fare marcia indietro» .

Qual è invece il messaggio per i cineasti?
«Le nuove tecnologie, cellulari compresi, hanno democratizzato il cinema. I governi possono impedirti di girare ma tu puoi sempre trovare il modo di svincolarti dalle loro pressioni. Se non lo fai, la colpa è tua»

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