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Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2011 alle ore 22:07.

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Sono stati un tributo alla carriera quei dieci minuti di applausi, che la critica e il pubblico della 64esima edizione del festival del cinema di Cannes hanno tributato ad Alain Cavalier e al suo Pater, presentato oggi in concorso. Ma è stata anche un'ovazione liberatoria a quel film in apparenza innocuo, uno scherzo tra amici, con cui Cavalier, in qualità di ordinario cittadino, si è tolto qualche sassolino dalla scarpa circa l'amministrazione della res pubblica. Il regista svizzero, l'attore Vincent Lindon e un manipolo di amici rodati mettono in piedi un'ipotetica gara politica.

Cavalier, presidente della Repubblica, decide di designare come suo primo ministro Vincent Lindon: "Mi piace, è espansivo, caloroso, ha un tocco impulsivo… sarà popolare", spiega Cavalier, che a Cannes ottenne il premio della giuria con Thérèse nel 1986. Immediatamente il primo ministro dovrà però mettere fine a un conflitto di interessi, vendendo le sue aziende. Il pubblico comincia a battere le mani. Lindon si contorce, una scelta difficile per lui, che si riconosce come uomo e come professionista nelle aziende che ha creato. Ma poi decide di buttarsi e comincia a stilare il programma. Cavalier vuole promulgare una legge, che tocchi il cuore della gente, sia umanamente giusta, anche se impopolare tra i politici. Gli amici, un po' ridendo, qualcuno intimidito dalla telecamera, intervengono. Il primo obiettivo sarà rendere più omogenei i salari: perché gli operai devono guadagnare decine di volte meno dell'imprenditore? Poi c'è la campagna elettorale. Lindon è stressato: "Quante mani avrò stretto, cento, ottocento, mille?". Il pubblico ride, batte le mani. C'è da pensare anche alla campagna contro i nemici, e saltano fuori le foto compromettenti. Ma decidono di non usarle, si fanno quattro risate alle spalle del malcapitato. Lindon si consuma presto, decide di lasciare e scrive una lettera di dimissioni al suo presidente. La retromarcia però è veloce: Lindon vede che il presidente non fa una piega e scopre che uno degli amici è pronto a rubargli la scena sia come attore che come candidato. Impossibile subire l'onta e l'offensiva riparte.

Difficilmente Pater riuscirà ad andare nei cinema: troppo lento, troppo intimo, troppo cortile di casa. Sembra di entrare in famiglia, di spiare nella cucina di Cavalier e Lindon, nella loro amicizia amalgamata e nell'umanità sensibile e nervosa di quest'ultimo, che lasciate a mezzo le vesti di attore fa trapelare anche i suoi tic. Eppure la pellicola ha il merito di liberare il cittadino che c'è in noi, perché tutti nella platea, di qualunque nazionalità, hanno riconosciuto molti aspetti della mala gestio del proprio corpo politico.

Successo grandissimo di critica anche per Le Havre di Aki Kaurimaki, che nella Francia del nord ha raccontato una storia di moderna immigrazione, con i canoni di certo cinema francese degli anni Quaranta. Nel porto di Le Havre viene scoperto un container, in cui da tre giorni stazionano, accomodati come in un salotto, uomini, donne, anziani e bambini nerissimi. Li accoglie una polizia in assetto di guerra, i giornali locali li apostrofano come possibili emissari di Al Quaeda. Solo un ragazzino riesce a scappare, ma è braccato come un terrorista. Gli offre conforto e riparo un lustrascarpe di nome Marcel Marx (André Wilms), sposato con una donna segaligna e dalla salute molto malferma, Arletty (Kati Outinen). Mentre Arletty viene ricoverata in ospedale, Marcel si butta in una testarda ricerca dei parenti di Idrissa (Miguel Blondin). Ad aiutarlo sarà tutto il quartiere di poveracci in cui vive, e inaspettatamente anche l'ispettore Monet (Jean-Pierre Daurossin), che per quanto vestito come l'uomo nero ha un cuore tenero. Tra interni anni Settanta, automobili anni Cinquanta, atmosfere e pose anni Quaranta, si svolge questa favola moderna con finale a sorpresa.

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