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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2011 alle ore 08:22.

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Bice Curiger, curatrice della rassegna "Illumininazioni" allestita all'Arsenale di Venezia, ritratta davanti a un'operaBice Curiger, curatrice della rassegna "Illumininazioni" allestita all'Arsenale di Venezia, ritratta davanti a un'opera

di Angela Vettese

Un plotone di piccioni guarda dall'alto l'Ultima Cena di Tintoretto (1594), tolta dal suo contesto a San Giorgio Maggiore e fiondata all'ingresso della 54ª Biennale di Venezia. I volatili, un'autocitazione di Maurizio Cattelan che li portò in questo luogo nel 1997, sembrano incerti se scendere a terra o volare via. Non siamo in una voliera ma in un posto dove tutto è ordinato e fisso, i colombi sono impagliati, la curatrice Bice Curiger ha chiesto a Cattelan di fare ancora il cattivo e lui ha promesso che questa è l'ultima volta: come Duchamp, dichiara di essere a fine corsa come artista, salvo poi – come fece il maestro – immaginare di restare attivissimo come editore e forse come curatore, gallerista, consigliere. Intanto la Biennale lo usa per darsi un po' di colore.


Vista con occhio buono, la mostra sembra volerci fare contemplare la volatilità del contemporaneo e la permanenza dell'antico, nonché la loro capacità di convivere e anzi il loro provenire da un'unica sensibilità occidentale, centrata, anche nel tormentato Tintoretto, sul senso del precario e del disturbante, sul dubbio rispetto all'idea di salvezza, sulla speranza di essere cari al cielo pur sapendo che la gravità spinge a terra: le prospettive e le luci vertiginose del grande manierista sono insieme voli e cadute.


Osservata con minore indulgenza, la rassegna è un contenitore assai simile nell'impianto alle precedenti prove di Maria Corral e Rosa Martinez (2005), Robert Storr (2007) e Daniel Birnbaum (2009). Si parte da un tema vago, da un metodo centrato sulle scelte soggettive del curatore e da due luoghi precisi quali il Palazzo delle Esposizioni ai Giardini e il primo pezzo dell'Arsenale. Ne nascono mostre obbedienti e istituzionali che servono a giustificare tutto quello che le accompagna, la gigantesca offerta di cose medie, mediocri o straordinarie sparse tra i padiglioni nazionali, le mostre a latere e quelle felicemente parassitarie. Così di solito, costretti in limiti economici e metodologici piuttosto angusti, i curatori realizzano l'esposizione meno originale della loro carriera e può capitare che anche artisti bravissimi portino qui il loro peggio. Quest'anno, per esempio, è cocente la delusione di fronte ai quadretti di Pipilotti Rist, che di solito è un vulcano d'invenzioni, o nella stanza di Cindy Sherman che cerca invano di rinnovarsi. Troppa attesa? Troppa paura? Pochi mezzi? Certo assai poca audacia.


La Biennale di Venezia si dimostra ancora un simbolo potentissimo, un festival che unisce poesia, pubbliche relazioni e affari, come dimostra l'occupazione della città in una settimana di notti bianche. La crisi è andata in vacanza e sul Canal Grande non ce n'è stata traccia, o forse incominciamo a capire come se ne uscirà: con differenze di classe assai maggiori e un nuovo spazio alla mondanità, dove l'arte è considerata un buon modo per diversificare gli investimenti ma anche, per fortuna, come un modo per rendere omaggio a una spiritualità di cui non si sa fare a meno. I padiglioni e le mostre collaterali, più danarosi e spesso più meditati di quello centrale, hanno maggiore libertà d'azione. Per tutto questo il curatore rischia di uscirne malconcio, con buona pace di ogni suo presupposto ideologico: a lui va il compito di dare un nocciolo all'oliva ed è l'oliva, la sarabanda collettiva, ciò che conta davvero.
Molte opere peraltro si salvano: lo Spazio Elastico di Gianni Colombo è un antro buio, intelligente e sensibile, che continua il riconoscimento post mortem di uno dei nostri migliori artisti e che trova un corrispettivo compatibile nella luce rosata di James Turrell. Christopher Wool propone un allestimento di quadri gestuali, marroni e neri, omaggio e critica al modernismo di Greenberg. Nicholas Hlobo ci porta dal Sudafrica uno spazio irrisolto ma vitale. Monica Bonvicini costruisce una scalinata riflettente che traduce la tensione di Tintoretto.


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