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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2011 alle ore 16:29.

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Da Winding Refn a Fassbender, il talento indipendente che sfonda anche tra i "grandi"Da Winding Refn a Fassbender, il talento indipendente che sfonda anche tra i "grandi"

L'estate sta iniziando e un anno se ne va. Inizia il periodo di sofferenza del cinema, nelle sale italiane sole e mare "rubano" spettatori e la programmazione si impoverisce. Non troppo, però, visto che da qualche anno a questa parte le major qualche pezzo da 90 lo calano anche in estate. Qualche kolossal molto atteso piomberà anche quest'anno a sparigliare le carte sotto l'ombrellone, da Cars 2 della Pixar all'ultimo Harry Potter, passando per il terzo Transformers. E il segnale parte da un altro franchise cinematografico, quello che, tra l'altro, salvò la Marvel e fece iniziare, di fatto, l'epoca moderna del cine fumetto: X-Men.

X-men: l'inizio, tornano i mutanti
Dopo il terzo capitolo dedicato al professor Xavier e alla sua squadra e soprattutto dopo il disastroso spin-off Wolverine di Gavin Hood, gli X-men, secondo molti, non avevano molte speranze di risorgere sul grande schermo. C'è voluta la regia con il pilota automatico di Matthew Vaughn e una scrittura e un'estetica molto anni '80 (nonostante il prequel si svolga negli anni '60 di Kennedy, ai tempi della crisi con la Russia per i missili a Cuba) perché ci si riappassionasse alle complesse vicende dei mutanti di casa Marvel. Da sempre una delle più grandi intuizioni di casa Marvel e spesso salvagente per le sue altalenanti finanze, quella dei mutanti buoni- ma neanche troppo- è la saga forse più amata e sfruttata del fumetto americano. Una nuova specie umana più evoluta a solleticare il rapporto tormentato con Darwin degli Stati Uniti, una minoranza che vuole integrarsi e che molti, se non tutti, vogliono disintegrare.

Qui li troviamo ragazzi, agli inizi. Xavier (James Mc Avoy) ha ancora i capelli, non è in sedia a rotelle e il suo migliore amico è Erik, la sua futura nemesi Magneto (Michael Fassbender, una spanna sopra tutti, come al solito). E' lui a formare gli X-Men e di fatto è la sua arroganza a fin di bene a creare tutti i presupposti, positivi e negativi, dell'universo mutante. Il film è semplice, con diverse piste narrative, nella sua parte centrale ha un suo brio (nonostante i 130 minuti e passa) e una sua gradevolezza, con tanto di cammeo irresistibile di Hugh Jackman.

Il centro drammatico e narrativo poggia tutta sulle spalle larghe di Fassbender, il film è la rivalutazione di Magneto, di cui scopriamo le ferite che ne hanno devastato l'anima (l'Olocausto e la perdita della madre), così come l'ansia di vendetta che si realizza in una scena di "duello" straordinaria. Film imperfetto- al di là di Mc Avoy e Fassbender, gli altri personaggi sembrano appena abbozzati, i cattivi sono caricaturali, dalla procace e legnosa Emma Frost all'ex nazista Sebastian Shaw (un Kevin Bacon che sembra uscito da Austin Powers)- ma che si lascia vedere. E sarebbe un piccolo gioiello se non ci fossero i primi cinque minuti e, soprattutto, gli ultimi dieci.

Bronson e London Boulevard: galeotto fu il carcere
C'è chi in galera trova le motivazioni per migliorare (London Boulevard), chi diventa un altro (Il profeta), chi si scopre diverso (Cella 211) e chi, infine, ci si trova così bene da volerci rimanere il più a lungo possibile (Bronson). Di sicuro, però, almeno al cinema, dietro le sbarre il riscatto non si trova mai. Piace ma non entusiasma la fatica dello sceneggiatore William Monahan. Colin Farrell esce di galera e per tutto il film cerca di fuggire alle sue vecchie cattive compagnie, Keira Knightley è una diva del cinema che il suo carcere dorato ce l'ha nella sua casa-castello: lei, infatti, non riesce a sfuggire ai paparazzi. Sognano un'improbabile fuga, impossibile, forse, come l'amore che sembra nascere nonostante tutto e tutti. I due attori sembrano avere un'imprevedibile chimica che aiuta il film, alcuni comprimari sono straordinari- su tutti David Thewlis-, il film scivola giù bene grazie a un'agilità di scrittura non sempre ben accompagnata da una regia a volte macchinosa. Ma alla fine ci si affeziona e quando il film si fa più rosa-nero, quando amore e sangue scorrono a fiumi, si rimane attaccati allo schermo.

Piccolo capolavoro è invece Bronson, film bello e cattivo in cui si conferma una volta di più il talento cristallino di Nicholas Winding Refn. Penultima opera del regista che con Drive ha vinto, meritatamente, il premio alla regia all'ultimo festival di Cannes, in questo film (finito nel 2008, arriva da noi quasi tre anni dopo) ci racconta un uomo ostinatamente devoto alla violenza. Lui è Michael Petersen, ma per la ferocia in cella si è guadagnato il nome d'arte Charles Bronson. Ha la faccia di Tom Hardy, che da qui è partito alla conquista di Hollywood (con meno muscoli l'avete visto anche in Inception).

Bronson è un ritratto della violenza come fascinazione quasi artistica, come marchio, il protagonista ha una feroce eleganza e un codice etico ed estetico che inevitabilmente ci cattura. E il fatto che non sia un assassino- per lui la "pena di morte" deve esserci solo per i pedofili- e che ci mostri, sorprendendoci, il suo lato più profondo e "intellettuale", ce lo rende irresistibile. Tutto il resto è la regia di Winding Refn, forse attualmente il migliore dietro la macchina da presa. Dopo Il profeta e Cella 211- e, se vogliamo, anche L'aria salata da noi - il sospetto che il cinema migliore di questi anni sia chiuso in galera si fa sempre più prepotente.

Le donne del 6° piano
Il sesto piano di cui si parla, in verità, è una mansarda. Ma questo non impedisce al bravo Philippe Le Guay di spaziare e spiazzare, di partire da quei (troppo) pochi metri quadri in cui vivono uno strano gruppo di donne iberiche per raccontarci della Spagna franchista e della Francia gollista, di una dittatura vera e di una in cui a comandare è il conformismo borghese (del 5° piano), altrettanto soffocante. Tutto racchiuso in una quotidianità da buon vicinato. Un'opera dolce, Le donne del 6° piano, che deve molto a Sandrine Kiberlain - su di lei i costumi di scena ci mostrano un'epoca - e soprattutto a Fabrice Luchini, un attore sontuoso nella sua normalità, uno che ha salvato non poche opere mediocri transalpine rendendole dei cult. Ed è lui che scopre questo gineceo e ha il coraggio di entrarci, capirlo, sperimentare un mix di culture necessario e affascinante. Non sarà un film che rimarrà nella storia del cinema, questo, ma di sicuro un piccolo spazio dentro di voi lo troverà.

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